Il Bar Irrera: per chi se ne ricorda e per chi non l’ha conosciuto

di Giuseppe Loteta – Messina, anni Cinquanta. Chi era sui vent’anni si era lasciato dietro le spalle il trauma della guerra e alternava ai libri le scoperte e gli incontri nelle oasi vitali che la città allora offriva in abbondanza.

D’estate il richiamo dell’Irreramare era più forte di ogni altro. Rigorosamente in giacca e cravatta, in tasca le poche lire necessarie per il biglietto d’ingresso, vivevamo le nostre ore notturne in uno dei ritrovi più belli e accoglienti del mondo. Ma nelle altre stagioni quasi tutte le sere era d’obbligo il cinema. Savoia, Peloro, Trinacria, Garden, Apollo, Lux, Aurora, non c’era che da scegliere.

L’ultimo spettacolo cominciava alle dieci e mezza di sera e finiva due ore dopo. In tempo per arrivare in piazza Cairoli e commentare il film appena visto intorno a uno dei tavoli del bar Irrera, nel salone interno se fuori diluviava, sotto gli alberi se il tempo lo permetteva. Anni d’oro per il cinema!

Chi sognava Rita Hayworth che sfilava lentamente il lungo guanto nero mentre cantava “Amado mio” e chi riandava all’epopea partigiana dei film neo-realistici, accendendo interminabili dibattiti politici. Antonio La Rocca forniva un’apprezzabile imitazione di Jacques Tati in Les vacances de Monsieur Hulot. Mimì Anastasi era fiero della sua somiglianza con John Carradine, l’indimenticabile avventuriero di “Ombre rosse”, e la accentuava con il portamento dinoccolato e con una zazzera a tutto collo. Eugenio Vitarelli giurava che avrebbe comprato una giacca bianca, una pistola e se ne sarebbe andato a Casablanca.

All’una di notte, il bar chiudeva i battenti. Se si era in pieno inverno, non c’era nulla da fare: si doveva rincasare. Ma se i tavoli erano all’aperto, prima di tirare le saracinesche camerieri compiacenti lasciavano ai clienti più assidui bottiglie e bicchieri, perché nelle accese discussioni e nelle pause contemplative o da scirocco non mancasse il refrigerio d’una sorsata d’acqua fredda.

Sovrintendeva personalmente all’operazione Renato Irrera, l’ultimo a lasciare il suo bar, che governava da decenni con polso di ferro e collaudata esperienza. Lo vedevi sulla porta, con aria indifferente e la sigaretta all’angolo della bocca, ma sapevi che non gli sfuggiva niente, neanche le poche bottiglie d’acqua che transitavano nella notte verso i tavoli, sempre quelli, degli ultimi avventori.

Lo malediceva e lo idolatrava, in un rapporto di odio-amore non dissimulato, Pietro Giunta, il capo-cameriere che aveva sostituito il mitico Neri dell’anteguerra e ne era l’esatto contrario. Elegante e sorridente Neri, sempre a posto con il suo papillon impeccabile e i suoi baffetti bianchi ben curati da gentiluomo d’altri tempi. Grassoccio e in perenne traspirazione Giunta, con l’abito grinzoso e i modi rudi. Ma entrambi di una professionalità esemplare e di un tatto non comune nei rapporti con la clientela.

L’una di notte. Era quella l’ora in cui, spente le luci del bar, il pittore Felice Canonico alzava gli occhi al cielo e cominciava a dissertare d’astronomia. Le stelle sembravano non avere segreti per lui. E chi masticava poco di questa scienza lo ascoltava con interesse, salvo a fargli notare, con quel tanto d’ironia sufficiente a far intendere ma non a indispettire, le ripetizioni in cui il pittore incorreva, inevitabili sera dopo sera. Canonico dava del lei ai più giovani e lo pretendeva in risposta. Memorabile quella notte limpida di prima estate in cui chiese a Geri Villaroel che sembrava non appassionarsi troppo alla lezione sul cielo stellato: “Lei lo sa dov’è Sirio?”. E, alla risposta inevitabilmente negativa: “Stenda una mano aperta verso il chiosco di limonate dei fratelli Allegra, al di là della piazza. Metta il mignolo sulla cima del chiosco e dal pollice faccia partire una retta ideale che sfiori l’indice. Guardi poco più sù. Vede quella stella? Quella è Sirio”. Subito dopo, stipati sull’auto di Mimmo Ferraro, il nottambulo per definizione e l’unico motorizzato del gruppo, ci dirigemmo verso i monti peloritani. A volte si chiudeva in bellezza la notte con escursioni del genere. E quella volta, scesi dalla macchina in una radura che si specchiava su un panorama ineguagliabile, Canonico riprese il discorso di piazza Cairoli: “Guardi bene, ora può dirmi dov’è Sirio?”. Ma per sentirsi rispondere con ineffabile candore: “Nenti, prufissureddu, si non c’è u cioscu, nenti!”.
Quei gelati dell’Irrera! I tradizionali pezzi duri dai vari sapori, di forma rotonda e con una stella coniata in superficie, gli schiumoni, le cassate, le torte gelate, le mattonelle, i tartufi, le banane allo spiedo…Tanto eccezionali e costanti nella memoria che ancor oggi in città c’è chi tenta di scoprire dove siano andati a finire quei lavoranti, quei gelatai, in quali bar, propri o altrui, alla ricerca di sapori perduti. E quei tavoli sotto gli alberi! Erano il cuore della città. Lì si davano gli appuntamenti, lì si avviavano o si concludevano molti affari, lì si riunivano intere famiglie per la granita del mattino o il gelato del pomeriggio, lì finiva col sostare immancabilmente chi veniva dalla provincia e aveva già fatto il suo giro di acquisti o di visite in città, lì andava chi cercava un amico ed era certo che prima o poi avrebbe finito per trovarlo.
Appena arrivavi, sostavi qualche minuto al banco per uno di quei caffè dall’aroma indimenticabile o per uno degli estrosi aperitivi che inappuntabili barmans, Galletta per primo, ti preparavano. E se volevi un giornale non avevi che da allungare una mano. Ogni mattina un giornalaio esponeva in bell’ordine la sua merce, quotidiani e settimanali, lungo la vetrina del bar, sul marciapiede. E andava via. Gli acquirenti lasciavano per terra l’importo del giornale. E quando lui ritornava, di sera, faceva i conti. Non gli è mai mancata una lira.
Poi, fuori, sapevi già chi avresti incontrato nei tavoli degli avventori abituali, in quelli degli anziani e in quelli dei giovani.

In uno di questi ultimi, quotidianamente, Nino Crimi, Eugenio Vitarelli, Nino Bassarelli, Vanni Ronsisvalle, Luigi Ghersi, io e pochi altri alternavamo i soliti discorsi su vere o pretese avventure erotico-sentimentali con grandi litigate su argomenti letterari (gli scrittori americani o quelli francesi e russi dell’Ottocento? La sintesi di “Mi illumino d’immenso” o le interminabili pagine dell’”Ulisse” e di “Orcynus Orca?), quasi fossimo al “Giubbe rosse” di Firenze o al “Caffé greco” di Roma. Per anni, sempre allo stesso tavolo, Totò Orlando prese in giro il “principe Falkemburg”, un innocuo signore di mezza età che vantava i suoi inesistenti e antichissimi quattro quarti di nobiltà e si diceva cugino della regina d’Inghilterra. E proprio al “principe” Totò gioco uno scherzo atroce. Trovato, non so come, un foglio di carta intestato dell’ambasciata britannica in Italia, stilò un invito a Londra per il genetliaco della regina Elisabetta, indirizzato al “principe “Falkemburg”. Complice un amico in Inghilterra, fece spedire la lettera al recapito messinese del malcapitato. E il “principe” andò a Londra, dove stavano per arrestarlo.
Ma prima di Totò intere generazioni di messinesi si erano esercitati allo stesso gioco con il “poeta” Sebastiano Lo Turco. Era questi un uomo mite, mutilato della Grande guerra, eternamente vestito di verde, che pubblicava a sue spese libri di versi del tipo: “Signorinella/ vaga donzella/ con la gonnella/ a campanella…”, oppure: “Evviva il Duce/ chiaroveggente/ fortuna e luce/ d’itala gente…”. Uno di questi volumi lo aveva dedicato a Marinetti, il fondatore della corrente futurista: “A Filippo Tommaso Marinetti, caffo togo di nugoli seletti”. Che diavolo avesse voluto dire nessuno riuscì mai a sapere. E anche Lo Turco aveva il suo uzzolo araldico. “Principe di Sabotino, del Sacro romano impero”, si presentava. E bastava questa presentazione a scatenare ironie e punzecchiature.
A ore fisse arrivava Ferruccio De Francesco. Piccolo, tutto assorto in una sua dimensione astratta, era figlio di Tommaso, il vecchio e innocuo libertario che negli anni del fascismo veniva sbattuto in galera con l’etichetta di “anarchico pericoloso” a ogni passaggio in città di un gerarca del regime. Aveva ereditato la tipografia paterna. E si era confezionato biglietti da visita particolarissimi.

Vi si poteva leggere: “Ferruccio De Francesco – Stab. Tip. Lit. Ser. Graf.”. Per il volgo: Stabilimento tipografico, litografico, serigrafico”. Raccontava spesso di suo fratello maggiore, quasi completamente sordo, che durante i bombardamenti americani del ’43 si rifiutava di correre in un rifugio antiaereo e restava cocciutamente incollato alla scrivania. Una mattina, una bomba piovve nel cortile dell’isolato ed esplose appena toccato il suolo. La casa, di cemento armato, non crollò. E lui, tutto raggiante, disse:”Avanti!”. Aveva finalmente sentito bussare alla porta.
Pochi giorni fa ero a Messina. E, inevitabilmente, un’antica consuetudine mi riportò in piazza Cairoli. Passo dopo passo, mi ritrovai sotto gli alberi, dove in un tempo ormai remoto Renato Irrera aveva fatto piazzare i suoi tavoli. Ecco, ero lì, e, se guardavo il chiosco dei fratelli Allegra, tutto poteva sembrare come allora. Avrei potuto aspettare la notte e ricercare Sirio. Chissà se era ancora nello stesso punto del cielo. Ma ressi solo pochi minuti. E scappai per non piangere.

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