di Giuseppe Loteta – C’era una volta a Messina il partito comunista. C’erano in questo partito uomini onesti che credevano fortemente nelle loro idee. Qualche nome? Fiore, Pizzuto, Tignino, Cannarozzo, Mondello, De Pasquale, Conti, Curatolo, Tuccari, Bisignani. E potrei continuare. Poi, però, accaddero tanti avvenimenti. Cadde il muro di Berlino, Occhetto operò la svolta della Bolognina, quel che restava del vecchio Pci subì attraverso varie sigle (Pds, Ds, Pd) una mutazione genetica, fondendosi con gli eredi della sinistra democristiana. A Messina la vecchia classe dirigente comunista scomparve, un po’ per ragioni anagrafiche e un po’ perché non volle adeguarsi a una realtà politica così diversa da quella che aveva vissuto e nella quale aveva condotto le sue battaglie. Arrivarono altri. E alla fine arrivò anche, dopo essere passato per sette partiti diversi, quel Francantonio Genovese, nipote del ministro Gullotti, che portò in dote alla nuova formazione politica il peggio del retaggio democristiano e della più recente storia cittadina: malcostume, affarismo, corruzione, clientelismo, nepotismo. Genovese governò per lunghi anni il Pd cittadino, da segretario, da deputato, da leader incontrastato, contribuendo notevolmente al dissesto politico, amministrativo, urbanistico. sociale di Messina. Finché non gli scivolò il piede e finì in galera, in attesa di un processo che lo vede accusato di riciclaggio, truffa e peculato.
Ora, revocati gli arresti domiciliari, Genovese è, per il momento, un uomo libero. E rieccolo a tessere la sua trama politica. Si incontra con Miccichè, abbandona il Pd, aderisce a Forza Italia insieme con il cognato Franco Rinaldi (quello che non viveva sulla luna) e la parlamentare Mariella Gullo, mentre fanno la valigia per seguirlo una serie di consiglieri comunali e gran parte degli iscritti al partito democratico.
Ci sarebbe da dire: meglio così, il Pd messinese si è liberato da una pesantissima zavorra, non può che migliorare. Ma non si può fare a meno di provare disgusto per l’ennesimo episodio di una prassi ormai consolidata in tutta Italia e particolarmente in Sicilia: l’abbandono di ogni riferimento ideale nella lotta politica, la corruzione dilagante, il cambio di casacca trasformistico, il disinteresse per il bene pubblico. Forse, invece di indignarci per il forte grido di dolore di Vecchioni, i messinesi, i siciliani, noi tutti, dovremmo provare a rialzare la testa.