di Simone Bertuccio – Il Sindaco Accorinti, nelle sue comparsate in Tv durante la crisi idrica, l’ha affermato tantissime volte: “La Sicilia ha esportato siciliani in tutto il mondo, ha creato una forza lavoro. I siciliani si sono sempre adattati, sono stati una grande risorsa per qualunque luogo in cui andavano a stabilizzasi”.
Mamma mia. Bello. Bellissimo. Bisogna dir la verità, indipendentemente dal credo politico, partitico, religioso, è una grande verità. Almeno uno di noi ha un parente, vicino o lontano, all’estero. O se non ce l’ha all’estero, ce l’ha al nord Italia. Ché poi, per chi lo racconta, con una botta di qua e una botta di la, un po’ estero lo fa pure diventare. Fa figo, si sa.
“Io c’ho il parente in Australia”, “Io ho un parente in Nuova Zelanda”, “Io ho un parente nel Burkina Faso”, “Io ho ho un parente sparso per ogni continente”. Quante volte le avete sentite ste cose? Ovviamente, potete sostituire le nazioni sopra citate, con quelle che fanno più al vostro caso.
Però è così. Ed è bello avere parenti sparsi per il mondo. Ci rimanda mentalmente a qual è stata la storia della nostra famiglia, chi eravamo, dove eravamo, se i nostri avi erano ricchi, poveri.
Riusciamo quasi ad interessarci davvero. Poi però ci accorgiamo di non sapere nemmeno che lavoro facessero i nostri nonni e un po’ ci vergogniamo di noi stessi però, dai, tutto sommato, sta roba che qualcuno dei nostri avi ce l’abbia fatta, che si sia creato una storia, una vita, una famiglia, una carriera, oltre confine, o anche stesso in una città blasonata del nord Italia, ci piace, ci inorgoglisce. E ne parliamo con tutti, spesso inventandoci mestieri assurdi, quasi inesistenti, che i nostri parenti, ormai stabilizzatisi altrove, avrebbero svolto per decenni e decenni.
C’è chi è diventato astronauta, chi ha creato il gusto gelato color “Puffo” – sì, avete capito bene – e che sia stato proprio lui poi ad esportarlo in tutto il mondo con la bicicletta giungendo infine anche in Italia, chi ha creato un nuovo impasto per i cannoli, chi ha fondato uno stato sovrano nel bel mezzo dell’Oceano Indiano, chi semplicemente non ha fatto nulla di nulla e ha fatto tantissimi soldi, chi è andato nell’Aldilà salvo poi tornare indietro perché “La vita sulla Terra gli sembrava più bella”, insomma, devo dirvi la verità, io alcuni di questi racconti li ho sentiti.
Alcune storie però sono anche vere. Meravigliosamente vere. Ma non riguardano esclusivamente racconti di nostri parenti lontani o vicini ma storie di ragazzi, adulti, nostri contemporanei che, armatisi di coraggio e buona volontà, qualcosa altrove l’hanno davvero creata.
Io però adesso faccio un passo indietro. Riduciamo gli spazi, accorciamo i chilometri, perché c’è un esemplare di messinese che, forse, messinese non dovrebbe più nemmeno millantare di esserlo. “E chi lo vuole essere”, questo messinese direbbe. “Ma chi ti vuole!”, diremmo noi.
Signori miei, stiamo parlando del “Messinese non più messinese che tutto il resto del mondo è bello, Messina no”. È proprio una categoria di essere umano.
Da che mondo è mondo, in qualunque città, anche tra le metropolitane più famose, esiste il cittadino che non ama tanto la sua terra natia. Quante volte nei film sentiamo l’abitante nato e cresciuto a New York che afferma di odiare New York perché troppo caotica, o quello delle cittadine calme, serene, di un paesino sui Fiordi, che afferma di vivere in un mortorio? Tutto il mondo è paese, lo diceva pure Irene Grandi ma il “Messinese rinnegante” – lo chiameremo così perché “Messinese non più messinese che tutto il resto del mondo è bello, Messina no” è troppo lungo – ha quel non so che di qualcosa in più.
L’avete mai notato? E non c’è bisogno di andare lontano, non ha bisogno di trasferirsi a Londra, a Copenaghen, a Berlino, a Buenos Aires. Il “Messinese rinnegante” lo trovi anche a Milano, anche a Roma. Ha un animo irrequieto, che fa perno su desideri inespressi, ambizioni che non hanno mai avuto modo di esplodere. Non riesce a spiegarsi perché, con questa sua indole così portentosa, sia nato proprio qui, a Messina, in un complesso di Via San Jachiddu, o sulla Via La Farina accanto all’ambulante che vende “Pomodori pe’ sassa e pe ‘nzalata” o, che so, a Mili San Pietro. Non se lo spiega. Lui o lei, sono predestinati. Come può essere che “L’Eletto” di matrixiana memoria sia nato in questa periferia del mondo? Infondo, loro, sin da quando erano piccoli conoscevano le possibilità proposte da Messina e quelle delle città del resto del mondo. Hanno sempre avuto una visione chiara, anche alle elementari.
Si iscrivevano a scuola calcio? Avevano già maturato abbastanza esperienza, comparabile con quella di Paolo Maldini l’anno del suo ritiro, per dire che altrove erano meglio. Ridevano con i compagni di classe durante la ricreazione con la Kinder Brioss Albicocca frantumata nelle mani? Altrove si rideva meglio. Erano spensierati in giro per i parchi in città a 4 anni con i propri genitori? Altrove erano meglio i parchi e perfino i genitori. Sapevano tutto.
Non che questo antipatico pensiero l’abbiano maturato crescendo, no, assolutamente. “Il messinese rinnegante” è quello che odia Messina. Glielo leggi in faccia quando da Milano, o Roma, torna per salutare i parenti. Anzi, non solo glielo leggi, ma te lo dice, e questo è un aspetto positivo che tuttavia bisogna riconoscergli: la sincerità. Anche se di questa cosa non ne sono molto convinto. Cioè, tu parti, vai a trasferirti altrove, lavori, ti crei una posizione rinomata di altissimo livello occupazionale e carrieristico – spesso riguardante il campo delle telecomunicazioni, anche chiamato Call-Center, o l’addetto alle vendite altresì detto Commesso/a –, ed inizi a odiare Messina, il suo aspetto, chiunque a Messina ci lavori, ci viva, decida di tornarci. Proprio, non gli piace più.
Attenzione: qui non si parla di chi lavora per mantenersi lo studio eh, né si cerca di criticare i lavori sopracitati. Qui si parla del New Cristoforo Colombo. Quello che parte da Messina per trasferirsi altrove ed, una volta appurata la vivibilità, la tranquillità, l’ordine, la civiltà, delle altre città, ne inizia ad imitare i costumi, le mode, i modi di fare. Solo che ciò, come può normalmente accadere, non accade automaticamente. Queste persone è come se invece si facessero delle endovene di purificazione contro la messinesità. Come se Messina si schifassero a raggiungerla – anche mentalmente – , a guardarla, anche in foto, annusarla, raccontarla.
Ma è un odio che mi è familiare. È un odio che riguarda chi ha ancora una ferita aperta, chi non è stato più accettato. Come a dire che la volpe, quando non arriva all’uva, dice che è acerba. E qui, quindi, tutto si capovolge. Perché, con questa visione, è come se loro non si sentissero all’altezza di questa città.
Con questa visione Messina si eleva a bella e grande città, cosa che per me è, senza retorica. Mi permetto quindi di dire che queste fastidiose persone, secondo il mio piccolo ed umile parere, si sono cucite addosso l’abito più comodo. In fondo è difficile lavorare a mano un diamante grezzo, meglio comprarlo già bello e impacchettato. È difficile mettersi lì e misurarsi con qualcosa che ti riguarda – la tua città, appunto –. Meglio misurarsi con luoghi dove tutto funziona meglio.
Credo sia una questione di coraggio e personalità. Di messinesi fuori sede che amano dove vivono ma a cui manca lo Stretto ne conosco a centinaia. Gente che in egual modo conosce questa città, la sua invivibilità imperitura, le sue tradizioni. Ma, ripeto, è questione di coraggio. Ed il “messinese rinnegante” più cresce e più diventa orfano di quel coraggio che ci spinge a fare qualcosa in più in quelle situazioni in cui si ha meno. Ambizione, quindi.
Ma il “messinese rinnegante” il suo fascino mediterraneo lo mantiene. Sì, ma a convenienza. Quando parla, altrove, dei cannoli, del mare. Si dimentica che senza Messina, va da sé, tutto questo non esisterebbe. Io credo fermamente che Messina possa fare a meno di queste persone che, chissà come, chissà perché, poi alla fine tornano sempre.
Forse parlo così perché, pur sapendo che un giorno andrò via, mi sono promesso di fare qualcosa, anche di piccolo, per questa città, o perché sono in ipoglicemia perché è passata una settimana senza che sia riuscito a mangiare almeno una palla di “Bianco e nero”, o perché anch’io ho un parente messinese di cui sono orgoglioso e che faceva una cosa che non faceva nessuno: mio nonno paterno, sul Viale Giostra, Bar Madison.
La mattonella gianduia più buona del mondo.
Perché c’era qualcuno che da fuori si vantava d’essere stato qui.