di Simone Bertuccio – Questa settimana avrei voluto parlarvi di un argomento rispetto cui, quasi sicuramente, anche le colombe di Piazza Duomo sarebbero state d’accordo.
Un argomento di carattere “quotidiano” nel senso che quotidianamente vi spinge ad imprecare contro qualunque cosa viva o inanimata, a chiedervi perché siamo nati, perché alcuni sono nati, perché ci si è disturbati affinché, comunque, abbiano dovuto far nascere anche te.
Poi però qualcosa è cambiato. E non mi riferisco al fatto che questa idea sia stata soppiantata da un’altra migliore – benché i messinesi diano sempre splendidi suggerimenti affinché ciò avvenga -, né al fatto che abbia avuto un’illuminazione dall’alto, o che sia stato ipnotizzato da qualcosa come in Una Pallottola Spuntata dove l’antagonista di Frank Drebin, Vincent Ludwig, cercava così d’uccidere la Regina Elisabetta II.
Tutto è successo per caso e, sinceramente, era meglio che non accadesse.
Quindicesimo del secondo tempo di una partita d’allenamento di calcio. Anticipi il pallone, il tuo avversario un po’ meno e di conseguenza anticipi la tua uscita dal campo. Urla simili a quelle degli “infedeli” inglesi durante le Crociate e che, catturati, si vedevano mozzare le mani. Simili, solo simili.
Due piccoli distaccamenti ossei alla caviglia con forte distorsione, questo il verdetto. Tuttavia, prima di un qualunque verdetto, c’è una partita, una causa in tribunale, degli avvenimenti, un processo.
Ecco: il racconto di oggi, lo dico senza girarci attorno, vi parlerà del Pronto Soccorso del Policlinico di Messina. Roba fresca fresca, quindi, illustrante un’esperienza vissuta. Possiamo anche parlare di “ricerca empirica” perché, potete credermi, inizi davvero a studiare tutto quello che ti vien detto, fatto, trasmesso, sussurrato, non detto, non fatto, non sussurrato, non trasmesso.
Lo fai perché, dopo le prime situazioni che ti spingono a dire tra te e te “Non ci credo, è impossibile che ciò avvenga”, inizi, quasi sfidando l’universo intero, a trovare un’altra cosa che possa peggiorare ancora l’idea che ti sei fatto. La prendi proprio come un fatto personale e non si tratta di essere prevenuti, si tratta di essere sarcasticamente sfiduciati dal fatto che ci troviamo “In the hands of no one”, più folkloristicamente parlando “’Nte mani i nuddu”.
Era la prima volta che mi capitava di andarci e, non fatemene un cruccio, non ho mai potuto appurare quanto la situazione, lì, sia difficile. Toni severi da descrizione di zone degradanti di città in via di sviluppo? Ecco, state entrando dentro il pezzo di oggi.
Innanzitutto, a distanza di qualche giorno, io non so ancora che tipo di codice sia stato. Verde, bianco, rosso, arancione, «rosso pompeiano, arancio aragosta, viola, viola addobbo funebre, blu tenebra». E credo che, come me, nemmeno gli altri sapessero che tipo di colore fossero.
Quello che so è che, appena entrato e accomodatomi su una sedia a rotelle, ho imparato più parole in dialetto con annesse parolacce colorite dai due infermieri disposti ad accogliere i pazienti, che in 27 anni di onorato soggiorno a Messina, per le strade e negli oratori. Tra l’altro so anche che una loro parente si sposa e che il vestito le è costato un “bidone di soldi” – itanializzazione, nds -, quindi “Auguri”. Ma sorvoli. Stai male. Tutto questo non ti importa. I minuti passano come le gocce che scorrono lente dal rubinetto dopo un problema a Fiumefreddo durante l’emergenza idrica.
In tutto questo, nessuno ti informa di nulla, nessuno ti aggiorna, né ti viene detto quanto tempo passerà, ma i due infermieri intanto disquisiscono sul fatto che “Non sia giusto invitare tizio al matrimonio, perché è un poco di buono” (italianizzazione, nds). Ora, qui non si vuol vietar mica agli infermieri di trovare un modo con cui ingannare il tempo. Certo, sarebbe meglio non sbattano in faccia la loro spensieratezza a chi è lì e vorrebbe imbottirsi di morfina, ma sarebbe pretendere troppo. Sarebbe semplicemente bello che informassero, punto. Qualche parola, aggiornamento, come a dire “Non siete soli. Siamo con voi. Il mondo non è finito”.
Va via un’ora e di dottori che passano di lì anche per sbaglio, nemmeno l’ombra. Il processo è meccanico e sistematico. Nessuno, e ripeto, nessuno lì può far qualcosa che riguarda i compiti di un altro. E non mi riferisco al fatto che un infermiere debba fare il
dottore, suvvia. Ma, tra stessa qualifica, ognuno comunque adempie il proprio dovere senza spostarsi d’una virgola. L’accettazione è compito di “Infermiere X”? Bene. Se nella sala in cui ciò avviene ci sono “Infermiere Y” ed “Infermiera K” a non fare nulla, fidatevi che continueranno a parlare del nulla più totale e pure oltre, ma l’accettazione, loro, non la faranno nemmeno se uno spirito demoniaco s’impossessasse del loro corpo. Ad ognuno il suo, giustamente. Le dinamiche relazionali tra di loro non le conosciamo. Potrebbe pure essere si stiano antipatici e si considerino a vicenda degli scansafatiche ma poi, lì tra di loro, il consiglio su come usare un gioco su Facebook se lo danno. Eccome.
Ad un certo punto ti viene fatta l’accettazione, ti vien dato un braccialetto blu, e dopo 20 minuti, da unire agli altri 60, arriva un infermiere che nomina il tuo cognome e quello di un altro sfortunato. Non credi alle tue orecchie. L’infermiere ti guida sulla sedia a rotelle e, superato il valico tra l’inferno e quello che speri sia il paradiso, vieni invece catapultato in un bel purgatorio. Non hai fatto nemmeno 10 metri che vieni parcheggiato di fronte ad una scrivania dove un dottore un po’ spazientito per l’orario di lavoro notturno, non ti saluta e non dice nient’altro che “Lei lo sa che è codice bianco e che deve pagare il ticket?”.
Eh? È come se ti arrivasse una bella sberla dal buon vecchio Bud Spencer a riportarti sul mondo.
Ricapitoliamo: 80 minuti d’attesa – mi è andata bene, ho sentito di persone che avevano aspettato così a lungo da essersi costruite un prefabbricato fuori dal Pronto Soccorso -, stai soffrendo e tu mi chiedi del ticket? Ma in quel momento, che diamine vuoi che mi freghi? E poi, perché non te ne hanno parlato prima gli infermieri X, Y e K, predisposti a farlo? Sei sull’orlo di una crisi di nervi quando lo stesso infermiere che ti aveva portato fin lì, ti guida fino in Radiologia. Ma ecco che inizia la staffetta. A metà percorso quel simpaticone dell’infermiere si ferma davanti ad una porta che alla sua sinistra aveva un citofono guasto, con i cavi sfilacciati, e sotto di esso: “Il citofono è rotto. Per aprire chiamate il numero di cellulare… ”.
Non so se state capendo tutto, ma vi consiglio di ricostruire bene la vicenda. Rimango lì, piantato, con questo infermiere, ad attendere altri 15 minuti nella desolazione totale, e con lo stesso infermiere che chiama tutti i numeri esistenti sugli elenchi telefonici, tranne che quello riportato sul foglio. “Io questo numero non lo conosco”, dirà di lì a poco. Bene. Ma sorvoli. Stai male. Tutto questo non ti importa. Appena valicata quella porta, vieni ceduto ad un’altra infermiera come l’Inter fece con Vampeta nel 2001.
Bene: per descrivere questa infermiera vi chiedo di fare un salto nel tempo e andare a vedere “Le Comiche 2”. Vi ricordate Paolo Villaggio nei panni del fattorino/steward nella scena dell’AeroTaxi quando, non curante delle condizioni di un passeggero in carrozzella con il piede ingessato, faceva in modo che questo sbattesse in ogni dove? Ecco, peggio. La tizia infatti, benché mi avesse chiesto e sapesse cosa avessi, superava le porte che dividevano i corridoi neanche fosse Niki Lauda o Colin McRae, facendo sbattere ripetutamente la mia caviglia con gli spigoli delle suddette porte. Ma sorvoli. Stai male. Tutto questo non ti importa. Arrivi in Radiologia. Silenzio assordante. Nessuno ti parla. Nemmeno i dottori.
Durante gli esami chiedi come si svilupperà ora il processo. Cosa ci sarà da fare, dove bisognerà andare. Vuoi capirci chiaro, diamine. Vuoi sapere se ti porteranno da un dottore o in un frantoio. E il dottore, giovane, a cui chiedi tutto, ti risponde come se tu quelle cose dovessi saperle. Perché ci andiamo ogni giorno in ospedale, no? Tutto si svolge in un modo veloce, stranamente, ma non si sa perché, l’attesa e l’ incomunicabilità sono dei punti forte del Pronto Soccorso del Policlinico “Gaetano Martino” di Messina. Appena effettuati i raggi, il dottore apre la porta e ti parcheggia spudoratamente fuori, nel corridoio largo un metro e mezzo, con la faccia rivolta verso il muro. E nessuno ti dice nulla. Niente di niente. Cosa aspetti, cosa ti aspetta, dove devi andare, se siamo sulla Terra – perché ad un certo punto speri sia tutto un sogno -. Altri 20 minuti lasciato inspiegabilmente lì. In una posizione assurda, nemmeno fossi in castigo, nel dubbio più totale. Ad un certo punto torna la stessa infermiera di prima, Niki Lauda.
Ormai la sua noncuranza nello sbatterti come una palla da ping-pong è cosa scontata e speri solo non ti catapulti come un’auto Rally. Siamo lì, quasi al traguardo, lo sento. Altra stanza. Altro silenzio. Altra desolazione. Si aspetta l’ortopedico che, ovviamente perché hai culo, chiama prima il paziente che era entrato con te. Sorvolerò sugli altri 30 minuti di solitaria e sconfortante attesa. Non ne ho più voglia. Parlerò delle prestazioni, non sessuali, della Dottoressa.
La giovane tizia mi chiede se mi fossi mai fratturato la caviglia e alla risposta che non mi fossi mai fratturato nulla in tutta la mia vita, quasi non ci credeva. “Quando ti sei fatto male?”. Allora: per rispondere a questa domanda faremo un percorso semplice. Sono in pantaloncini e maglietta della squadra di cui faccio parte, ho ancora lo scarponcino da calcio nel piede sinistro – quello sano, ancora, per fortuna -, mi han fatto i raggi alla caviglia destra e li hai nelle mani, la caviglia è gonfia, la domanda è: quando diavolo credi mi sia fatto male? Nulla da fare, la tizia non crede e non si spiega il perché di quel trauma. Tu non parli con nessuno da 24 ore, in quell’Ospedale stavi per morire di solitudine, sei nervoso, stanco e l’unica persona che dovrebbe tranquillizzarti e darti delle risposte che, seppur non piacevoli, almeno sono certe e l’unica cosa che ti dice, con una voce flebile da ragazza 19 enne lasciata in autostrada dal ragazzo dopo una litigata, è: “Strano. Non capisco”. E l’unica diagnosi sensata la dai tu dicendo “Forse potrebbe quindi trattarsi di… ” e ricevendo il suo fermo consenso.
Altra attesa prima di firmare tutto. È mezzanotte. Stai per essere dimesso. E pensi, anche genericamente, alle lotte sociali, ai tagli del governo alla sanità, al problema di qualche giorno fa della chiusura dell’Ospedale Piemonte, alle tasse che si pagano e al perché siamo nati, perché alcuni sono nati, perché ci si è disturbati affinché, comunque, abbiano dovuto far nascere anche te. E ripensi a quelle strutture fatiscenti, alla lentezza di alcuni e al nervosismo di altri, a quel Pronto Soccorso che sembra gestito da un bambino di terza elementare due volte ripetente. E lo fai tra i tuoi amici che adesso sono con te e che stavano per chiamare “Chi l’ha visto?” e la tua ragazza che, tutto sommato, ti vede più vecchio. Hai qualche filo di capello bianco. Era il 2015. Era tanto tempo fa. Ora le cose vanno meglio.