Ormai quando piove e piove con forza, un po’ di paura è legittima, soprattutto per chi vive lì, in quella porzione al confine sud di Messina che alla pioggia deve i suoi lutti più recenti.
Era il 1• ottobre di sei anni fa, la notte nella quale la quiete della città è stata scossa da una calamità che ha portato con sé disastro, distruzione e vite: uomini, donne e persino quelle dei bambini che la mattina successiva non si sono svegliati nel proprio letto. Bambini che hanno dormito, dormito per sempre, sepolti da fango e macerie.
Era il 1• ottobre, di un autunno appena arrivato e presentatosi con tutta la forza di un anomalo acquazzone che con la sua inaspettata dirompenza ha inondato strade e abitazioni: quasi trecento millimetri di acqua caduta dal cielo nel giro di pochissime ore, una bizzarria meteorologica che si è trasformata in una tragedia.
Era il 1• ottobre la notte in cui ferrovia e strade diventavano percorsi di melma, in cui i tetti crollavano e le palazzine venivano ingoiate nel vuoto dei torrenti.
Era il 1• ottobre, un 1• ottobre fatale, un 1• ottobre che resterà per sempre nella memoria della collettività, quella che nella situazione drammatica di quei giorni si è stretta in un abbraccio unico, tipico delle comunità vere, sconosciuto solitamente all’animo dei messinesi.
Certo, le pecore nere c’erano allora e ci sono oggi: in quei giorni di ricerca dei dispersi, di interventi per riaprire le strade e raggiungere frazioni e paesi rimasti isolati, qualcuno continuava a proporre inviti a serate in giro nei locali. Del resto nulla fermerà la movida messinese. Ma furono eccezioni, disgustose, asettiche e inumane eccezioni. Chi poté diede una mano, ciascuno a modo proprio.
Non mancarono le polemiche e le dita puntate contro i colpevoli, giocando al solito scarica barile tra istituzioni e dipartimenti. La politica italiana fece le sue apparizioni perché, si sa, la passerella è d’obbligo in questi casi, e nei talk show si parlò per qualche tempo di costruzioni abusive, messa in sicurezza del territorio e qualcuno ebbe anche ad emettere sentenze di colpevolezza verso chi in quelle ore piangeva i congiunti.
Quel che ci resta di quel 1• ottobre non saranno le mobilitazioni nazionali che non ci sono state, non saranno gli aiuti giunti dal numero solidale per gli sms attivato e disattivato nel corso di un fiat, e neppure la famosa messa in sicurezza del territorio.
Quel che ci rimane è il dolore, è la bolla di abusivi appiccicata addosso indiscriminatamente a tutti coloro i quali avrebbero dovuto essere chiamati semplicemente “vittime”. Quel che resta è la foto dell’allora sindaco Buzzanca e l’ei fu Governatore Lombardo, sottobraccio in posa con la devastazione alle loro spalle e sotto i loro piedi. Una foto decisamente inappropriata. Una foto che non sbiadisce!
Resta l’essersi sentiti figli di un Dio minore, di uno Stato che ci ha etichettati come figliastri, di un Paese che ha guardato alla nostra tragedia come ad un disastro che si sarebbe potuto evitare, come a dire che lo eravamo andati a cercare. Restano cantieri aperti e case ancora impraticabili. Resta tanta paura, quella che anche oggi, giorno in cui il beffardo e grottescamente ironico destino vuole sia diramata una allerta meteo per le prossime ore, proveranno gli abitanti di Giampilieri, di Scaletta, di Altolia e di tutte le frazioni che stanno lì, in quella porzione al confine di Messina.
E la proveranno oggi più di ieri perché era il 1• ottobre esattamente come oggi. E la città se lo ricorda: la storia è fatta di date, di uomini, di emozioni, avvenimenti che vanno fissati nella memoria, di vittime a cui non si può chiedere di aspettare anche solo per essere ricordate perché in agenda si è accavallato un altro impegno.
Era il 1• ottobre e il 1• ottobre la città tutta deve fermarsi, raccogliersi in un silenzio luttuoso più interiore che non rappresentato dal minuto formale di bocche chiuse e sbadigli. Un lutto che va portato perché il dolore non si deve spegnere, non si può estinguere: è ancora troppo presto, è ancora tutto troppo irrisolto. È ancora tutto troppo poco rispettato. E così esce di scena l’arcivescovo che il 13 ottobre del 2009 celebrò il rito per le 35 vittime (numero poi salito a 37) del disastro di Giampilieri, con un rinvio delle commemorazioni posticipato a domani perché oggi, oggi è il giorno di un altro saluto, quello al pastore che lascia prematuramente le sue pecore in mano ad un successore già giunto. C’è da ammetterlo senza indugi: questa uscita di scena di monsignor La Piana non rimarrà tra le più commoventi e c’è da scommettere che non verrà ricordata con emozione dai messinesi. Come se – con le dovute proporzioni – l’11 settembre si scegliesse, scientemente, di dedicare le celebrazioni ad altro che non sia la memoria di quel che è avvenuto nel 2001. Come se a New York si congelasse il ricordo per un giorno. Come se l’America e il mondo intero mettessero in stand by l’anniversario degli attentati terroristici al cuore dell’occidente, in nome di un sopraggiunto appuntamento istituzionale. No, non è possibile neanche immaginare un’assurdità tale.
E chi pensa che oggi si possa far finta di niente, che l’anniversario si possa rinviare per una volta, che le celebrazioni possano slittare di 24 ore, semplicemente non è degno di condividere questo lutto con la collettività. Semplicemente non è comunità. Si chiami esso cittadino singolo, istituzione pubblica, o persino curia.