Era novembre e stava per iniziare l’inverno, sempre tardivo dalle nostre parti. Era novembre ed annoiata andavo a seguire uno dei tanti spettacoli teatrali, stavolta alla Sala Laudamo. Era novembre e mi ritrovai in una platea stracolma e sul palco tanti ragazzi che sembrava si stessero riscaldando. Una specie di prova di ginnastica, guidata da Angelo Campolo, occupava la scena, un gruppo che con mani, braccia, respiri, chiedeva di essere ascoltato. Poi le luci spente, poi lo show: Pinocchio come non l’avevo mai visto.
Era la prima tappa che la compagnia DAF – Teatro dell’Esatta Fantasia si accingeva a fare nell’ambito del progetto “Laudamo in Città” con il laboratorio teatrale “Nel Paese dei Balocchi”. Quattro appuntamenti che non ho perso, quattro spettacoli da rivedere di fila, tutti d’un fiato.
E di colpo l’estate, il caldo e il mal di testa. E di colpo il teatro, questa volta all’aperto, a luci soffuse, in una cornice meravigliosa quale il Monte di Pietà. E di colpo rivedi quei ragazzi con i lori volti e le loro voci (altamente diaframmatiche stavolta!) sparsi su uno spazio nuovo, su quella stessa scena che simula le rovine del Paese dei Balocchi, del nostro Paese a pezzi, (quasi) senza speranza.
Il debutto di Maratona Pinocchio, a cura di Angelo Campolo, con la regia collettiva, oltre dello stesso Campolo, di Annibale Pavone, Paride Acacia, Giacomo Ferraù e Giulia Viana, aprendo il cartellone estivo del Teatro Vittorio Emanuele al Monte di Pietà, ha confermato un grande successo. Una maratona, un’unica corsa, un unico tempo, in cui l’unico vero testimone è il pubblico, un unico racconto, un unico obiettivo: diventare umani, degni di se stessi e dello stare al mondo.
Prendendo le fila dal capolavoro di Collodi i giovanissimi del laboratorio hanno tutti interpretato le ansie, le ribellioni, l’ironia di Pinocchio, quel burattino di legno che desiderava essere un bambino in carne ed ossa. Prima “pezzi di corpo”, masse informi, pronte all’uso, pronte per essere scelte, provette da fecondare low cost, poi figli ingrati e bugiardi, figli che odiano, figli che abbandonano i padri e i padri che abbandonano i figli, che programmano la loro vita, che non comprendono, padri che si vestono di solitudine e abbandonano se stessi e il loro destino, e poi ancora i figli che cercano i padri e li salvano, come Pinocchio fa con Geppetto – ben interpretato da Simone Corso – nel ventre della balena, nel rifugio/gabbia familiare.
Pinocchio protagonista di una fiaba ricca di simbologie, con richiami alla massoneria, alla filosofia nichilista, alla psicanalisi, oltre la funzione pedagogica, fa emergere quella sociale: così capiamo di essere stati almeno una volta nella vita Gatti, Volpi e Lucignoli, un po’ ladri e un po’ perversi, un po’ ingordi e un po’ contro le buone maniere. Però tutti onnipotenti nel mondo dei sogni, in cui non ci poniamo freni inibitori, in cui smettiamo di essere “duri come il legno”. È nei sogni che Pinocchio desidera fortemente diventare un bambino “vero”, una verità che la Fata Turchina può garantirgli solo dopo aver sperimentato il sentimento più umano, ovvero l’Amore, che è un’emozione, uno stato di ansia, una vita di sacrificio, una costruzione, una distruzione, un fallimento, un tradimento. Con l’Amore i burattini di legno diventano umani, incapaci di sfuggire alla morte, ma capaci di sentire il respiro dell’altro, di vederne gli occhi, di saggiarne il sapore. Ricordarsi da dove siamo venuti, ricordarsi dove ritorneremo, è il senso non dell’origine, ma dell’eterno fluire della vita: così quel buffo bambino di nome Pinocchio mi ha lasciata di nuovo senza parole.
Coreografie di Sarah Lanza, scene e costumi di Giulia Drogo. Ancora in scena fino al 26 luglio alle ore 21.30 al Monte di Pietà. (Clarissa Comunale)