di Sergio Di Prima – Seduto in un anonimo caffè di un sobborgo londinese, accomodato su una vecchia poltrona angolare a muro, leggo la storia di Giovanni e Aurora. E volo indietro negli anni per ritrovarmi nella Messina di quand’ero bambino: la rivedo immersa in una luce più chiara. Fuori dal caffè c’è un bel sole, di quelli che a Londra non si vedono spesso. Sui tavolini all’aperto non c’era posto, ma poco importa: preferisco leggerla qui, al riparo dal calore di giugno, questa storia che carezza e che solca come una lama. Perché certe fragilità, certi slanci, certi silenzi, toccano corde profonde.
Giovanni Santatorre e Aurora Silini sono due giovani del ’77 che vorrebbero cambiare il mondo, membri un movimento studentesco che a Messina vive l’eco di rivolgimenti in atto altrove, in un’atmosfera che pare presagire la Rivoluzione. I due s’incontrano, e sono come i «due mari» dello Stretto che si mescolano in vortici di sofferenza e di amore. Un amore tormentato, incapace di sopravvivere a una realtà che si disgrega in frantumi.
Seguiamo così la lenta discesa agli inferi di Giovanni, il cui «sogno» sfuma in «allucinazione». Tra tentazioni di lotta armata e «palude della provincia» – cui si aggiunge il senso di costrizione della vita familiare – è la frustrazione ad avere la meglio, trascinandolo dentro il viluppo della droga. Simile a un antieroe sveviano per buona parte del racconto, incapace di dar corso a propositi di cambiamento tanto apparentemente vigorosi quanto effimeri negli esiti, Giovanni ci sorprenderà: la forza con cui si tira fuori dal fango mettendo in atto la propria rinascita, infine falciata da un destino spietato, lo trasforma in un eroe tragico che resta impresso a luce viva.
Aurora è una ragazza studiosa, cresciuta quasi prigioniera sotto l’egida del «fascistissimo» padre. Tra le aule universitarie vede schiudersi un mondo imprevedibilmente fertile di libertà. Conosce così Giovanni: poco più che ventenni – dopo un matrimonio “riparatore” fortemente cercato – i due diventano genitori della piccola Mara. Più forte del marito, o più capace di adattarsi ai marosi della vita, vede naufragare il rapporto tra inevitabili incomprensioni e «silenzi opportuni», ritrovandosi a crescere la figlioletta da sola. Il suo è un eroismo quotidiano, fatto di resistenza, rinunce, amore materno. Al marito che dalla comunità le ha inviato una lettera a cuore aperto, scrive disillusa: «Tra dieci anni tu potrai dire di avere vissuto, io di aver pagato affitti, bollette e libri scolastici».
Entrambi soffrono un rapporto problematico coi rispettivi genitori, in special modo la distanza della figura paterna. Il loro amore si rinfiamma brevemente e si sfilaccia inesorabilmente tra scontri sordi e tenerezze struggenti.
Gli anni al contrario è anche la storia di Mara, la bambina nata fissando tutti «con enormi pupille nere», tali da spaventare i nonni «più di un mafioso e meno di un professore di matematica». E qualcosa ci suggerisce che quella bambina è proprio lei: la giovane donna che oggi ha deciso di raccontare la sua storia. Una storia dissepolta lentamente, lungo sette anni di elaborazione tra Roma (dove vive) e gli scompartimenti dei treni, ma non a Messina: l’unico luogo dove, tornando, le era impossibile scriverne. E Nadia Terranova, dopo aver girato l’Italia, domani sarà qui a Londra, a presentare il suo libro all’Italian Bookshop.
«Eppure lasciò il dammuso canticchiando». Mancano dieci pagine alla fine e il tepore luminoso dello Stretto non può medicare le ferite che dalle pagine rimordono – tanto meno il sole londinese, sotto il quale ora mi avvio.
«C’era una volta… un re? No: barboni e capelloni. E non sto parlando di Risorgimento e Carboneria, ma di un periodo assai più vicino a noi. C’erano una volta gli anni ’70…» Esordisce così Enrico Franceschini, corrispondente di Repubblica da Londra e “ragazzo del ’77” (di cui ha dato testimonianza in Avevo vent’anni), introducendo Gli anni al contrario in un’affollata sala della libreria italiana a Soho, a un passo da Piccadilly Circus. Rilevando che quel periodo – e quelle lotte – dicono assai poco alla gioventù odierna. L’autrice marca la distanza tra la sua prosa asciutta e densa (nutrita di letture quali Pavese o la Ginzburg) e quella dei “verbosi” anni ’70: «Volevo raccontare quel periodo a chi non l’ha vissuto, nella lingua di chi non l’ha vissuto». Franceschini sottolinea il dato biografico: «Certi scrittori sono bravissimi a inventare storie, altri dànno il meglio di sé quando raccontano vita reale: io credo che tu sia tra questi ultimi». Il libro, ammette Nadia, è la storia romanzata dei suoi genitori.
Messina è presente, teatro naturale d’insinuante bellezza, sfondo dai colori tenui o dorato dal sole. È la Riviera al tramonto, il mare «luccicante e festoso» visto dal traghetto; è l’incanto di Fata Morgana che scombussola le menti, attratte a tuffarsi per toccare la Calabria. È il caffè freddo macchiato panna nel bar del centro dove Giovanni e Aurora si dànno appuntamento; è l’università dove studiano. «Ci tenevo tantissimo ad ambientare la storia a Messina», dice Nadia accendendosi, «sia perché è lo scenario naturale degli eventi, sia perché è una città assai poco raccontata». Città marginale e trascurata, ma carica di storia, devastata dal terremoto. Città intimamente poetica.
Nove anni scorrono lungo pagine dal ritmo incalzante: il tempo rallenta con la malattia di Giovanni. Ed è costantemente scandito da una scrittura scorrevole, dove grande rilievo assumono le ellissi, come certi silenzi o elusioni nei dialoghi: gli spazi del non detto (in proposito la Terranova ha segnalato il saggio di Nicola Gardini Lacuna, dedicato a questo cruciale aspetto della narrazione). Una prosa che non indugia nella descrizione, limitata all’essenziale: «Preferisco far comprendere il carattere dei personaggi dalle azioni», spiega la scrittrice.
In precedenza Nadia ha pubblicato libri per ragazzi (e un altro, Le nuvole per terra, è appena uscito). «L’unica differenza è che quelli li scrivo più velocemente», nota. E aggiunge: «Ogni volta cerco storie che mi portino in quel viaggio primitivo che conduce ad attraversare il bosco e ad uscirne dicendo: sono sopravvissuta». Come Cappuccetto Rosso – altra picciridda – anche Mara se la caverà.
«Il mio libro è affollato della morta gioventù degli anni», recita l’epigrafe in apertura, citazione da Harold Pinter. Quella gioventù, Nadia la riporta in vita: se camminate davanti a un cielo nitido lungo la Riviera, quando l’aria è incantata per la luce ormai sfatta sulle cose e un superstite bacio di sole adorna la Calabria, da qualche parte sulla spiaggia sentirete echeggiare le risa di una bambina, e scorgerete Mara giocare col suo papà.
L’INTERVISTA
Nata a Messina nel 1978, Nadia Terranova si è laureata in Filosofia nell’ateneo peloritano e addottorata in Storia Moderna a Catania. Dal 2003 vive a Roma. Ha pubblicato i seguenti libri per ragazzi: Caro diario ti scrivo… (con Patrizia Rinaldi, Sonda Editore, 2011); Bruno. Il bambino che imparò a volare (Orecchio Acerbo, 2012); Storia d’agosto, di Agata e d’inchiostro (Sonda Editore, 2012); Le nuvole per terra (Einaudi, 2015). A gennaio di quest’anno è uscito per Einaudi il suo primo romanzo, Gli anni al contrario, ambientato a Messina negli anni Settanta.
I due protagonisti del romanzo sono modellati sui tuoi genitori da giovani. Quali sono state le tue fonti nella costruzione di Giovanni?
In realtà in buona parte l’ho inventato. Su mio padre non ho mai chiesto informazioni. L’ho creato risalendo a tutto quello che avevo osservato e assorbito durante l’infanzia, rielaborando le idee che mi ero fatta di lui. Mi sono anche lasciata uno spazio d’immaginazione. Non ho fatto un’azione investigativa neanche con mia madre: anzi, l’argomento è stato tabù per anni.
Giovanni dice: «La mia generazione non è servita a niente». L’amico Renato gli fa notare che «almeno aveva attraversato la Storia». Qual è il tuo pensiero?
Quella è la frase di un personaggio sconfitto in un momento estremo, in cui guarda la sua vita in quel punto e tutta la storia. Io non la penso affatto così: quegli anni sono serviti tantissimo, e sono sicura che anche un Giovanni sopravvissuto li avrebbe poi rivisti diversamente. Tra l’altro c’è una questione di tempo: io li vedo adesso trent’anni dopo; lui lo dice alla fine di quel decennio, che sembra dissolto dalla società del consumismo, cancellato dalla Storia. Io credo che dovremmo ritornare a certe conquiste di quegli anni.
Com’è il tuo rapporto con Messina?
Ci torno spesso. Da quando sono andata via ci ho fatto “pace a distanza”. E sono ritornata molto siciliana scrivendo, riappropriandomi della lingua, delle storie: ho sentito il bisogno di scrivere di Sicilia più volte. Prima avevo disagio e volontà di fuga; ora invece ho un rapporto di grandissimo amore.
Il tuo romanzo si presta benissimo a una trasposizione cinematografica. Chi vedresti come interpreti? Propongo Isabella Ragonese come Aurora.
Anch’io la vedrei bene. Ma… posso rispondere immaginando attori stranieri, o di un’altra epoca? Allora direi una Katharine Hepburn giovane nei panni di Aurora, e per Giovanni, anche se non credo abbia mai fatto l’attore, un Federico Fellini giovane. (S.D.P.)
Libro: Nadia Terranova, Gli anni al contrario, Einaudi “Stile Libero”, Torino, 2015, pp. IV + 148, € 16,00.