Le vaghe forme dell’incanto, l’anima “prigioniera” di Lucia Montauro in una nuova raccolta di versi

“Il viaggio non finisce mai, solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione”.

Celebre frase dello scrittore Josè Saramago, tratta dall’opera “Viaggio in Portogallo”, che si addice, se si traspone l’immagine legata alla certezza della meta, propria del viaggio fisico, a quella del cammino incerto e mutevole che si addentra nei meandri dell’anima, a Lucia Montauro.

Intimista viaggiatrice senza posa, l’autrice, messinese di nascita e milanese di adozione, prosegue con una nuova raccolta di poesie, 57 liriche tra tempo ed eterno, il suo incessante cammino sulle tracce di un’accorata, profonda esegesi umana.

Le vaghe forme dell’incanto”, pubblicato da Genesi editrice, è l’ultima fatica letteraria della pluripremiata scrittrice.

Tra le sue pubblicazioni si ricordano Poesie varie del 1988, Tra pensiero e labbra del 1989, Tra due lontananze del 1992, In assenza del venditore di more del 1994, Il fluido dell’alga del 1998, Le costole del sonno del 2007, L’ebrezza transitoria del 2011 e L’insonnia della psiche del 2014.

Liriche riconosciute in importanti competizioni letterarie nazionali che è possibile ritrovare in antologie e riviste specializzate e di settore.

Opere che hanno sollevato l’interesse di alcuni tra i più importanti critici letterari italiani tra cui Giorgio Bàrberi Squarotti, Donatella Biasutti, che ha curato la prefazione dell’ultima raccolta di liriche della Montauro, Robero Carifi, Angelo Jacomuzzi, Giampiero Neri, Roberto Rebora, Ugo Ronfani, Maria Luisa Spaziani.

Abituata ad addentrasi nei sentieri più incerti e reconditi dell’anima, Lucia Montauro prosegue il suo instancabile viaggio alla ricerca di tempo vicino e lontano che custodisce le cose più care, presenze che rivivono in una lirica profonda e introspettiva, terreno fertile per una poesia che per l’autrice è anelito di vita.

Fedele compagna della Montauro è una solitudine che l’autrice coltiva e custodisce come un monile prezioso tra le mura della sua abitazione, all’interno della quale, “prigioniera volontaria”, come ama definirsi, ricordando Emily Dickinson, prendono vita “vaghe forme d’incanto”.

Una condizione appartata, lontana dalla frenesia di un mondo che consuma velocemente se stesso, vittima di mode e ritmi che non appartengono all’autrice, che rappresenta il substrato imprescindibile attraverso il quale si alimenta una disanima interiore, essenza di una lirica che affascina e conquista.

A scandire il suo tempo, un’analisi intimistica dell’anima, interiorità alla quale l’autrice si abbandona in flusso immobile ed eterno costellato da inquietudini, nostalgie e rimpianti.

Un moto “sempre eterno”, anelato e invocato dall’autrice “se mai sarà concessa un’altra vita”.

Un magma fluente che rinvigorisce l’essere” e si perde nei sentieri dello spirito per innalzarlo e purificarlo, perché “vivendo senza meditazione e desideri si può sfiorare il baratro, ma se il pensiero lievita l’inquietudine può mutarsi in pace”.

Lontananza e sogno dunque, ma anche ricordo e ricerca, percorrendo i quali l’autrice accompagna il lettore in una dimensione parallela nella quale ritrovano sostanza gli affetti perduti, “racchiusi in un attimo eterno”, e l’atavico legame con la terra natia nel “il profumo del mare” e nel “giallo intenso dei limoni”.

Suggestioni di sogno, “preludio di una vita atemporale” (@Emma_De_Maria)

 

 

 

 

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