A Messina, al Policlinico universitario “Martino”, in Terapia intensiva neonatale c’erano 7 posti letto liberi; in quella del “Piemonte Papardo” ce n’erano altri 3. Tuttavia, la centrale operativa del 118 di Catania il posto di rianimazione per tentare di salvare la piccola Nicole, nata nella notte tra l’11 e il 12 febbraio del 2015 nella casa di cura Gibiino di Catania, l’ha cercato per 6 ore nei tre ospedali pubblici della città etnea: invano. Sei ore che sono risultate fatali. La neonata è morta mentre veniva trasportata a bordo di un’ambulanza privata all’ospedale di Ragusa, ad un’ora e mezzo di distanza da Catania, quasi il doppio di quanto si sarebbe impiegato per accompagnarla a Messina. Sono i direttori generali delle due aziende sanitarie dello città dello Stretto, Michele Vullo e Marco Restuccia, a confermare il paradosso: “I posti c’erano. Ma nessuno in quella notte ha telefonato per chiederne la disponibilità”, dichiarano i due manager. “Da cittadino e da operatore della sanità mi domando qual’è il motivo per cui nessuno, né 118, né medici, ha pensato di interpellare gli ospedali di Messina?”, commenta il manager del “Papardo Piemonte” Vullo.
L’interrogativo del manager è anche uno dei tanti degli inquirenti della Procura di Catania alla ricerca di eventuali responsabilità nella morte della piccola Nicole: sul registro degli indagati per omicidio colposo ci sono i sanitari della clinica privata, gli operatori della centrale operativa del 118 e i medici della Terapia intensiva neonatale dei due ospedali catanesi interpellati.
Ma è soprattutto un interrogativo inquietante per la commissione ministeriale inviata nell’isola. Sotto inchiesta c’è, infatti, anche il Servizio sanitario regionale della Sicilia che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha minacciato “di commissariare se non in grado di assicurare il livelli essenziali di assistenza”. Il caso Nicole è la spia di inefficienza del sistema o quanto accaduto è solo frutto dell’errore umano?
STEN…. QUESTO SCONOSCIUTO.
Al di là delle responsabilità dei singoli (tutte da accertare), gli operatori del centro operativo del 118 che hanno raccolto la richiesta di aiuto dalla casa di cura Gibiino una piccola attenuante per non essere riusciti a trovare un posto a 70 chilometri di distanza ce l’hanno. Ha la forma di un acronimo, che nella provincia di Catania non si è mai tradotto in realtà. Si legge Sten e sta per Sistema trasporto emergenza neonatale. E’ l’organismo che avrebbe dovuto attivare il 118, una volta messo al corrente delle condizioni di Nicole, alle prese con una grave crisi respiratoria. E’ il decreto regionale del 2011 sulla Rete dei punti nascita ad obbligare determinate Aziende sanitarie a metterlo in funzione con tanto di medico responsabile, dettando delle precise regole di funzionamento per consentire il trasferimento del neonato a rischio vita in tempi rapidissimi (al massimo 60 minuti) in una struttura adeguata del territorio regionale.
Il decreto firmato dall’allora assessore alla Salute Massimo Russo ha affidato la responsabilità dell’attivazione nella provincia di Catania al Policlinico Vittorio Emanuele. Risultato? Tre anni dopo, nella seconda città della Sicilia di Sten non c’è ancora traccia. Il motivo? “Non posso dare informazioni che direttamente o indirettamente riguardano la morte della bambina. L’assessore regionale Lucia Borsellino ha dato disposizioni che tutte le informazioni vengano richieste all’assessorato”, risponde però il direttore generale del Vittorio Emanuele, Giampiero Bonaccorsi.
Qualunque sia il motivo, i sanitari del Gibiino e gli addetti alla centrale operativa del 118 si sono trovati a gestire l’emergenza senza contare sul Servizio, imposto per questi casi dalla legge, che avrebbe accorciato le distanze tra Catania e Messina. Il decreto del 2011, infatti, prevede il collegamento sistematico tra altri Sten, che avrebbe consentito, ad esempio, nel caso di Nicole, di allertare quello di Messina attivato da tempo al Policlinico “Martino”.
PICCOLI E INSICURI.
A leggere lo stesso decreto si scopre che la mamma di Nicole nella casa di cura di proprietà di un parente del coordinatore locale di Forza Italia ci è potuta andare a partorire per il rotto della cuffia perché il punto nascita non ha dovuto chiudere per tre parti. Non tre parti reali, ma tre parti, stimati sulla scorta dei dati degli anni precedenti, in più rispetto alla soglia minima dei 500. Al di sotto di questa, secondo i protocolli internazionali, il rischio per la madre e il nascituro aumenta a dismisura. Secondo il decreto firmato da Russo i punti nascita con meno di 500 parti avrebbero dovuto chiudere entro il 31 dicembre del 2012. L’operazione in Sicilia non si è ancora conclusa: ogni volta che i direttori generali delle aziende sanitarie ci hanno provato sono scattate le proteste di sindacati e politici. Il Comune di Bronte, ad esempio, si è rivolto alla magistratura amministrativa. Il Consiglio di giustizia amministrativa ad aprile del 2014 ha ritenuto non solo legittima ma anche necessaria la razionalizzazione dei punti nascita sottolineando come il Ministero della Salute fissi, a tutela della sicurezza delle puerpera e del nascituro, in almeno 1000 parti il numero standard ottimale. (www.micheleschinella.it)