Certamente voleva realizzare qualcosa di diverso da una semplice necropoli per accogliere l’emergenza colera che dilaniava la Sicilia di quegli anni. Leone Savoja, l’architetto geniale e creativo, innovatore e sognatore che ha ideato il Gran Campo Santo di Messina, di sicuro aveva in testa un’idea originale e moderna. A quanto pare, il suo progetto era quello di dar vita ad uno splendido parco in centro città che racchiudesse al suo interno opere d’arte, cortili e vicoli incorniciati da palazzetti dall’architettura stilisticamente varia, ma armoniosa, e sculture evocative, giardini curati e viali alberati. A duecento anni dalla nascita di quest’uomo a cui tanto deve Messina, in sordina e sotto tono è stato celebrato il suo genio, appena qualche giorno fa, con un convegno dal titolo “Gran Camposanto: museo d’arte-cultura nel parco della memoria”. Lui sta lì, con quel busto che lo rappresenta e che da metà percorso della sua creazione più illustre sembra controllare, con il suo occhio marmoreo, quanto avviene all’interno del cimitero. Lo osserva dal centro che affaccia sull’ingresso e ci chiediamo “chissà cosa penserebbe di quel che ne è stato?”.
Tutto rispetta teoricamente quei crismi che Savoja progettò ma, nel bicentenario della sua nascita, non possiamo non pensare che la celebrazione più consona sarebbe stata ridare a questo museo a cielo aperto la dignità che merita e che, da troppo tempo, è persa tra immondizia e fatiscenza, abbandono e incuria. E se tra gli addetti ai lavori c’è qualcuno che cerca di tenere alta la nobiltà della storia che questo campo santo racconta, la cittadinanza e i molti addetti alla manutenzione e alla sorveglianza, evidentemente, non sono ligi allo stesso rispetto e cura che esso merita.
Non solo dunque un sepolcreto nel quale osservare silenzio e depositare crisantemi ai piedi di una lapide, ma anche e forse soprattutto un giardino che odora di vita, di fiori freschi e vegetazione spontanea, adornato con sculture che raccontano esistenze troncate dalla morte ma di cui ancora ci parlano epitaffi emozionanti.
C’è la giovane scomparsa prematuramente a cui il marito dedica un pianto d’amore; il pargolo strappato all’affetto dei cari dopo appena qualche vagito; la coppia che ha voluto restare insieme, sepolti l’uno di fianco all’altra, dopo una vita trascorsa vicini, anche dopo che questa si è spenta. Soldati valorosi e nobili d’altri tempi, patrioti e artisti, modesti operai che han lavorato onestamente per guadagnarsi un posto di valore nella galleria monumentale e inconsolabili vedove, morte di dolore. In ogni metro quadro è celato un segreto, è dato un accenno di una storia, di un amore, di un dolore, di un’esperienza che ritratti di marmo o bronzo raccontano a chi li osserva, quanto e più di un quadro esposto in un qualunque museo al mondo.
E pensiamo se mai al Louvre o agli Uffizi troveremmo normale scorgere flaconi vuoti ai piedi della Gioconda o de La nascita di Venere, sacchetti dell’immondizia vicini alle figure scultoree di Amore e Psiche o al busto di Cosimo de’ Medici, erbacce e mozziconi di sigarette, pezzi di intonaco e bottigliette di plastica abbandonati negli angoli della Sala Raffaello o nella Hall Napoleon. No che non lo troveremmo normale. Più che deplorevole sembrerebbe assurdo! E ancor più assurdo è che nel nostro meraviglioso museo, invece, ci sembra così “normalmente vergognoso!”.
Una vergogna che si mette da parte quando si lascia il cimitero e tutto resta lì alle nostre spalle, compresa l’indignazione del momento. Abbandonati e imprigionati tra le grinfie dell’incuria: tanto le tombe degli illustri messinesi, quanto tutto il famedio e il cenobio, splendidi e non valorizzati. Per non parlare del cimitero degli inglesi: una figuraccia tutta nostrana.
La realtà è che a noi non interessa ricordare, non ci importa conoscere, non vogliamo una città migliore ne abbiamo interesse ad essere noi stessi cittadini degni. Se è vero che una rondine non fa primavera, è altresì evidente che non bastano una manciata di operatori di buona volontà a stravolgere la logica di pattumiera a cielo aperto, o di deposito di casse mortuarie abbandonate a se stesse, che per decenni ha contraddistinto il manage di questo straordinario luogo che, certamente, Leone Savoja, non avrebbe mai immaginato sarebbe finito così: trafugato da habitué che, con tanto di scala ben posizionata in via San Cosimo, si insinuano di notte e fanno razzia di quel che è commerciabile; deturpato dall’inciviltà dei visitatori e trascurato dall’ignavia della gente; umiliato da chi avrebbe come dovere unico il prendersene cura e non lo fa; mortificato da bilanci che per questa voce di spesa non prevedono mai fondi sufficienti; spoetizzato da quanti in quell’area vedono soltanto un deposito di salme e restano ciechi di fronte alla meraviglia che il parco offre.
E se lo scorso anno decidemmo di chiudere il pezzo sul Gran Campo Santo menzionando i Sepolcri foscoliani, quest’anno non saremo da meno ma con una consapevolezza in più radicata: a Messina è il silenzio a vincere, non l’armonia e il canto dei poeti! La speranza è che passegiando tra quei viali ci siano occhi meno chiusi e più critici, tanto da comprendere a quali conseguenze la cecità di tutti porta. (@Eleonora Urzì)