Quello della serialità televisiva è un universo vastissimo – con i suoi codici, le sue regole e le sue… eccezioni. Se volessimo iniziarne un’attenta esplorazione, quale sarebbe la base più indicata da cui partire?
E’ quanto mi son chiesta negli ultimi giorni, pensando a come inaugurare nel migliore dei modi questo nuovo spazio di MessinaOra dedicato alle serie tv.
La scelta, non facile, è alla fine ricaduta sulla rivelazione seriale di questo inizio 2014: True Detective. E non soltanto perché è il successo del momento, ma perché presenta delle caratteristiche che lo rendono appetibile anche ad un pubblico esigente e/o scettico nei confronti del mezzo televisivo e dunque è una serie perfetta per avvicinarsi, da profani, a questo mondo.
I motivi sono diversi, ma in termini logistici le ragioni per guardarla sono principalmente due:
– La prima stagione, che in America si è conclusa domenica sera, è composta da soli otto episodi di circa 50 minuti. Recuperarla è, dunque, semplice e veloce.
– È una serie antologica. Ovvero, ogni stagione racconterà una storia diversa con un cast diverso. Unico filo conduttore: due detective e un caso da risolvere. Niente finali aperti, dunque, e niente drammi in stile “come farò ad aspettare un anno per scoprire come va a finire?” Un bel sollievo per chi non è abituato, o addirittura rifiuta, i meccanismi che si celano dietro certi format.
In secondo luogo, è un prodotto HBO, acronimo di Home Box Office – traduzione approssimativa: botteghino casalingo o, meglio ancora, il cinema a casa tua.
Un nome che è tutto un programma, anzi, una vera e propria dichiarazione d’intenti. HBO, infatti, è un network via cavo statunitense di tipo premium (ovvero in abbonamento) che si è sempre distinto per la qualità delle sue produzioni. Avrete sicuramente sentito parlare di Sex & the City, I Soprano, o The Wire: ecco, sono tutte serie HBO che, in un modo o nell’altro, hanno fatto la storia della tv. Se c’è un tempio della serialità, è certamente questo. E a proposito di qualità, i nomi dietro True Detective sono davvero interessanti.
Intanto gli attori protagonisti: un notevole Woody Harrelson, volto familiare in particolare ai cinefili, che regala una performance sulla cui profondità forse in pochi avrebbero scommesso, e poi Matthew – rivelazione dell’anno – McConaughey, vincitore dell’Oscar 2014 per la sua parte in Dallas Buyers Club. I due interpretano rispettivamente i detective Marty Hart e Rust Cohle, impegnati nella ricerca di un serial killer tra le paludi della Louisiana. Il primo è un padre di famiglia tutto d’un pezzo, mentre il secondo si presenta fin da subito come un personaggio controverso e con una visione pessimista della vita.
L’autore e produttore esecutivo è Nic Pizzolatto, ex-professore di narrativa e romanziere pluripremiato. Dietro la cinepresa troviamo Cary Joji Fukunaga, rivelazione del Sundance Film Festival 2009 con il suo primo lungometraggio – Sin Nombre – e regista di Jane Eyre, film del 2011 con Michael Fassbender. I due firmano insieme tutti e otto gli episodi che compongono la prima stagione: un fatto insolito nel mondo della serialità televisiva, che dà un segnale di continuità caratterizzata in senso cinematografico.
In realtà, il concetto di continuità in True Detective è molto complesso, sia dal punto di vista contenutistico che formale. Per esempio l’idea di circolarità che permea tutto il racconto – time is a flat circle è un concetto che torna più volte nella storia – non si traduce in una narrazione lineare. L’indagine di cui si occupano Marty e Rust si snoda nell’arco di quasi 20 anni, dal 1995 al 2012, ed è ricostruita attraverso l’alternanza di piani temporali distinti e un intreccio di informazioni non sempre facili da decifrare. Tra queste si possono includere anche i riferimenti letterari di cui Pizzolatto si serve più o meno esplicitamente – da Lovecraft, a Chambers, a Conrad – espedienti che però non vanno confusi con mero citazionismo compiaciuto. True Detective vive delle sue suggestioni: di esse si serve, smontandole e poi ricomponendole, per raccontare un’indagine conoscitiva che trascende il caso di cui i due detective si stanno occupando e finisce con l’abbracciare il senso stesso della vita – the secret fate of all life, come recita il titolo del 5° episodio. Un’operazione affascinante, sorretta da una scrittura evocativa e un lavoro di regia che le dà forma e sostanza. Le sterminate pianure della Louisiana e i grandi spazi immobili che Fukunaga esplora con i suoi campi lunghissimi sono il terzo protagonista della storia: non a caso il legame tra particolare ed universale, tra l’individuo e il suo ambiente, rappresentano un tema portante nell’economia del racconto.
Come avrete intuito, dunque, True Detective vanta un impianto teorico davvero articolato e affronta tematiche molto complesse e delicate. Il suo fascino sta proprio in questa sensibilità d’autore, che a molti sembrava impossibile rintracciare in un prodotto televisivo.
La ricezione critica della serie è stata, non a caso, molto positiva. A colpire è stata soprattutto la capacità di Pizzolatto di servirsi degli stilemi del genere crime senza per questo restarvi imprigionato, spostando il focus della narrazione dalla detection, ovvero l’indagine, al percorso evolutivo dei personaggi. Grande plauso ha ricevuto anche la performance di Fukunaga: il piano sequenza di 6 minuti che chiude la quarta puntata ha già praticamente fatto scuola.
Anche il pubblico sembra aver apprezzato: il finale, andato in onda il 9 Marzo negli Stati Uniti, ha raddoppiato gli ascolti della première, già attestatasi come miglior debutto HBO degli ultimi tre anni.
Una vittoria per tutti, dunque, in particolare per la tv di qualità, intesa anche e soprattutto come approccio al mezzo. Le sue potenzialità sono ormai sotto gli occhi di tutti e True Detective non è che l’ultimo tassello della cosiddetta third golden age of television. Un prodotto che, secondo alcuni, è già una pietra miliare.
Se stavate cercando la serie giusta per cominciare, beh, probabilmente è proprio questa.
Note:
In questo articolo di Slate trovate le risposte ad alcune domande poste dal finale.
Questa, invece, è una divertente parodia della serie con protagonisti Joel Mchale e Jim Rash, volti noti della serie tv Community
(Francesca Anelli)