Tutto esaurito anche per il terzo appuntamento della rassegna “La Prima Volta”, progetto di Dario Tomasello, Vincenzo Tripodo e Gigi Spedale.
C’era una volta e purtroppo continua ad esserci una giovane donna con una storia da raccontare. E non una storia qualsiasi, ma la storia di come è morta. La premessa di questa piccola storia amara è chiara da subito, così come è chiara la sua tragica universalità. A darle corpo, voce, respiro e anima è Saverio La Ruina, autore, regista e interprete fenomenale, che appare da subito trasfigurato, assumendo le fattezze della sua protagonista. Questa piccola storia di vita e di morte conquista e commuove l’Italia da anni, regalando a La Ruina, fondatore, insieme a Dario De Luca,della compagnia “Scena Verticale”, preziosi riconoscimenti tra cui il Premio Ubu 2007, sia come migliore attore che come migliore novità italiana. Ma le parole di Pasqualina, musicate e ritmate con i colori del suo dialetto calabrese, sono sempre attuali, dure, spinose e potenti e non si ascoltano mai abbastanza. Per questo non stupisce minimamente la grandissima affluenza di pubblico, che costringe alcuni spettatori ad assistere allo spettacolo in piedi, date le ridotte dimensioni e la complicata gestione della platea della Sala Laudamo durante la Rassegna, affidata a collaboratori volontari.
Pasqualina,giovane calabrese del secondo dopoguerra, educata al dolore, al rispetto delle regole, alla paura e al silenzio, ha dentro di se’ i volti, le mani tremanti e i tic di milioni di giovani donne e di bambine, che a occhi chiusi non possono raccontare la loro storia, le emozioni e le paure di chi va incontro suo malgrado ad uno dei fenomeni più diffusi e costanti nella storia dell’umanità: il femminicidio. Pasqualina può, come per magia, e l’ombra del suo corpo da ventenne, rannicchiato su una sedia, come a non riuscire a contenere il suo dolore, fuso con quello di tutte le altre donne di cui parla, forse senza saperlo, trascina gli spettatori in un universo vicinissimo ma molto lontano, in cui le ragazze sono isolate, mute, completamente assoggettate alla volontà e alle quotidiane violenze del padre, per poi passare al dominio del marito. Le sue mani torturano un lembo del vestito, il piede sinistro dondola e il suono delle sue parole, fuso con echi musicali prodotti in scena dal polistrumentista Gianfranco De Franco, che la avvolgono con note dolcissime e strazianti insieme, scavando nell’anima del pubblico. E così gli ottoni cullano gli spettatori nei “cunti” della ragazza, che ha voglia di raccontarsi, di spiegarsi senza saperlo, di giustificare la sua terra, il suo sangue, il paese delle zitellone, la sua giacchetta rossa così frivola, le conversazioni immaginarie con una statua della Madonna, l’estasi da brividi di un viaggio tra le cassette della frutta e la condanna alle donne di città, con i loro vestiti scollati e indecenti e le loro scarpe da marciapiede, bellissime quanto inadatte alla vita in campagna che è parte di lei ma anche condanna, in una esistenza senza alcuna alternativa legittima o possibile scelta. Una vita a occhi bassi, la sua, contando le pietre per terra, che non poteva bastare ai suoi entusiasmi da bambina, al suo amore ingenuo e fragile, al suo sguardo curioso, né alla sua paura dei giudizi, delle parole del padre, del paese, che per lei è il mondo. Parole come coltellate, che la condannano senza appello a una vergogna ancestrale che non è sua, che non merita, ma che sente bruciare sulla pelle. Paura di diventare una “zitellona”, di non poter realizzare i suoi sogni, dimessi e puliti, nel buio della sua Calabria, nel buio di un mondo folle. Quando Pasqualina alza lo sguardo non sa niente di ciò che la circonda. Non sa niente di se’ stessa, perché non le è stato insegnato ad occuparsi di altro che non fossero lenzuola, pecore malate, cucina, pascoli e famiglia e non sa nemmeno immaginare, soffocata com’è dal lutto che porta dentro da generazioni, e che si manifesta alla sua nascita in tutta la sua sventura. Quando Pasqualina alza lo sguardo segna la sua fine. Non è il corpo morto abbandonato per terra su cui scherza, temendolo, da quando era piccola, la fine. La sua fine va ben oltre il dolore fisico, le ferite. La sua fine è un’anima che sviene, uno sguardo tagliente, la forza di sperare di morire, di credere negli angeli, di desiderare una salvezza semplice che la sua terra non sembra poterle offrire. (MARTINA MORABITO)
Foto SERENA CAPPARELLI