HATES: L’ORRORE DELL’INDECISIONE

I film si dividono in due grandi categorie,  e il genere non c’entra niente. Ci sono film onesti, i cui produttori sanno esattamente chi sono, cosa stanno facendo e per l’intrattenimento di chi e a cosa puntano. Sono così ingenui da diffondere trailer in cui mostrano al pubblico in cinque minuti tutto quello che succederà nei novanta della pellicola. I film onesti probabilmente non vinceranno premi, non verranno esaltati dalla critica, non verranno definiti “esercizi di stile” nemmeno da chi li ha diretti, ma porteranno a termine il loro obiettivo con la coscienza pulita divertendo il loro target di pubblico con leggerezza e aspettando di entrare nei palinsesti tv a qualsiasi orario.

Poi, purtroppo, ci sono gli ambigui. I disonesti. Nel migliore dei casi il loro intento è guadagnare senza limiti e per questo non si fanno alcuno scrupolo. Niente può fermarli: iniziano la loro truffa costruendo trailer in cui fanno sembrare il loro film mediocre un capolavoro di tutt’altro genere, ingaggiano l’attore/attrice del momento facendo palesemente roteare la trama intorno a lui, a volte riescono ad aggiudicarsi i diritti della canzone/tormentone della stagione e lo sbandierano ai quattro venti. Si fingono intellettuali o geni, vendono il loro film come se fosse oro cinematografico e non si fanno alcun problema ad usare qualsiasi cosa e far leva su qualsiasi sensazione, che siano le crisi ormonali di una dodicenne o la voglia di giovinezza di un cinquantenne, promettendo soddisfazioni che mai arriveranno.

E questo è il caso di “The House At the End of the Street (Hates)”, esempio innegabile di ambiguità furba e consapevole. Il film, uscito nelle sale italiane il 13 giugno, sfrutta la promessa di un horror, evidente dal trailer ma inconsistente e palesemente fittizia, come emerge dai primi confusi minuti della pellicola. E mescola alle caratteristiche di un thriller blando e totalmente prevedibile una fotografia sporca, piacevole ma insufficiente a rendere le atmosfere inquietanti, in un’ambientazione canadese patinata e quasi diluita.

Il tutto gira vorticosamente attorno a Jennifer Lawrence, vincitrice del Premio Oscar come migliore attrice per  “Silver Linings Playbook” (“Il Lato Positivo”), che rimane vittima di una sceneggiatura debole e di un personaggio poco credibile e approfondito, che per giunta la costringe a vestire i panni di una liceale minorenne, proprio qualche mese dopo gli apprezzamenti del pubblico e della critica per la sua interpretazione notevole di una giovane vedova scossa ed esaurita.

Ma andiamo con ordine, dando una struttura ad una quantità di carne al fuoco non solo trita e ritrita e poco interessante, ma anche apertamente gettata al vento nel continuo tentativo di attribuire al film un genere diverso ogni cinque minuti, deludendo tutti sistematicamente. Elissa, dopo il divorzio dei genitori,va a vivere con la madre in una nuova città. Le due possono permettersi una casa che sarebbe al di sopra delle proprie possibilità grazie alla vicinanza ad un’abitazione in cui anni prima ebbe luogo un orrendo duplice omicidio. La problematica figlia dei vicini uccise entrambi i genitori a 12 anni, sparendo nel nulla e lasciando il fratello, fuori città la notte del crimine efferato, unico superstite della famiglia. Superati gli accenni numerosi e prevedibili, alla conflittualità tra madre e figlia, ai rapporti con il padre, alla difficoltà di adattamento e agli eccessi giovanili, i frammenti cantati inspiegabili e il breve flirt tra giovani ribelli, prende, o dovrebbe prendere vita il mistero del film: che ne è stato della sorella di Ryan, vicino di casa affascinante e un po’ scimmiesco della Lawrence? Cosa nasconde davvero il ragazzo? I due piccioncini sono in pericolo?

Il problema è che chiunque in sala riesce ad anticipare le mosse dei protagonisti, le svolte della trama e i presunti colpi di scena dalle azzardate immagini e battute della prima metà del film. E non convince nemmeno una lunga, lunghissima sequenza di combattimenti acrobatici per la sopravvivenza in cui Elissa diventa una moderna e bionda Lara Croft per salvarsi la vita e tutto ciò che la circonda, in un lentissimo esasperante secondo tempo, diventa così grottesco e inconsistente da provocare ripetute e diffuse risate in sala.

 

(Martina Morabito)

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