Pubblichiamo un articolo apparso sul Manifesto il 6 aprile 2013 a firma del Prof. Sarantis Thanopulos (Membro Ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana), che sarà in città il prossimo 12 aprile per una giornata di studio organizzata dal Laboratorio Psicanalitico Vicolo Cicala.
Il suicidio dei due coniugi di Civitanova Marche a cui ha fatto seguito il suicidio del fratello di lei è un atto civile: una lezione di etica senza retorica e senza intenzioni didattiche che priva com’è delle sue parole sarebbe opportuno che non la si lasciasse cadere. E’ possibile che sparisca in pochi giorni: statisticamente è questo il suo destino più probabile. Se, invece, restasse dentro di noi come nodo doloroso, come ferita che fa male, ci obbligherebbe a restare vivi, a cercare di mettere un argine al suicidio selettivo delle proprie emozioni che ognuno di noi effettua quotidianamente partecipando inconsapevolmente a un rito di massa sempre più esteso. Si può vivere da morti o morire da vivi.
Non è una grande scelta a dire il vero ma la morte dei nostri tre sconosciuti vicini ci ricorda che nessuno di noi ne é pienamente fuori. Più l’anestesia (nella sua versione calmante o in quella eccitante) espropria i nostri sentimenti più i nostri pensieri e i nostri discorsi sono vuoti, un’emorragia silenziosa del desiderio. Come in ogni cosa che ci colpisce in pieno (se siamo abbastanza presenti in noi per accorgersene) è il dettaglio che stona (periferico al fatto inesorabile) che ci consente di rientrare in gioco e di non essere spazzati via (nell’illusione, così umana per altro, di dover staccare la spina per riprendersi). I due coniugi hanno lasciato una lettera in cui chiedono perdono.
È una lettera di mittenti senza un indirizzo, perché qualcuno possa inviare una risposta, e senza un destinatario. Una lettera come quelle che si trovano per strada o come quelle che arrivavano, in tempi passati, in spiaggia dentro bottiglie trasportate dall’oceano. Non è spedita da naufraghi ma è rivolta a dei naufraghi, a noi che siamo sopravvissuti naufragando. Non possiamo sapere il significato che i mittenti hanno dato al perdono (quello che ci chiedono, quello che ci danno): l’hanno portato via con sé. Ci hanno lasciato soli a decidere. Lo possiamo fare solo guardandoci attorno (guardarci dentro è spesso la prima scappatoia disponibile).
Guardando il vuoto che i nostri occhi non sono abituati a vedere, guardando i nostri gesti distratti e ripetitivi, la ritualità che prende il posto della nostra passione (erotica, sociale, civile), l’esaltazione di tutti i luoghi comuni che esilia ogni tipo di pensiero difficile, potremmo forse arrivare a capire che cosa ci dicono (utilizzando il loro sacrificio ai fini di una nostra riparazione, com’è giusto che sia): ci chiedono perdono per averci lasciato al nostro destino di morti viventi se neppure la loro morte ci portasse al risveglio.
Tuttavia se riusciamo a svegliarci, a tornare vivi, ci perdonano per averli lasciati partire per aver reso la loro rinuncia inevitabile. Non sono parte del nuovo che avanza né l’araba fenice che rinasce dalle sue ceneri: sono una parte di noi dimenticata che non vuol vivere come menomata né ricevere elemosina.