IL DIARIO DI MARIAPIA: UNA COMMEDIA NEOPLASTICA, PIU’ RADIOFONICA CHE TEATRALE

 

Fausto Paravidino, interprete ma anche regista ed autore, si presenta come un ragazzino. A farlo apparire tale non sono l’altezza, tantomeno il viso da fanciullo, quanto l’accostamento con la vetustà pomposa, e spesso gonfia di niente, che un certo “nonnismo” teatrale ha invece imposto. Si presenta come una persona seria e non “seriosa”. Ed è simpatico. Molto simpatico, con quella vocetta particolare, con i contenuti dei suoi discorsi così condivisibili e la parlantina semplice, priva di sofismi inutili, tanto che lo vorresti come miglior amico fin da subito. Sono grato di non esserlo però, togliendo subito di mezzo una delle difficoltà che Il Diario di Mariapia mi pone dinnanzi visto che devo farne una critica.

L’altro problema invece, assai più spinoso, è che devo far capire a chi leggerà questa recensione che una critica, per fortuna o purtroppo, deve andare oltre agli aspetti dolorosi e personali da cui nasce quest’opera. Non ho bisogno di garantirmi un posto in paradiso ungendomi di buonismo inutile, e su questo, ne sono certo, il signor Paravidino mi comprenderà.

Apprezzo la volontà di non piangersi addosso, ma, anzi, di trovare e vedere l’ironia e la comicità di certi atteggiamenti che si snodano attorno ad un moribondo. Ho apprezzato anche la spontaneità nell’interpretazione di Fausto e della fidanzata Iris Fusetti, i quali hanno interpretato se stessi e altri personaggi, tutti attratti da quella figura ferma, chiusa in un’esperienza che, per quanto ci si sforzi, non può essere condivisa, nè tantomeno compresa appieno. Il bisogno di avvicinarsi e contemporaneamente di prendere le distanze è una sottigliezza notevole. Ma i pregi finiscono qua.

Non so dire per che cosa questo soggetto sarebbe stato adatto, se cinema o televisione, so per certo che non è il teatro il luogo più consono. Il teatro possiede il pregio/difetto di avere di partenza una fissità che deve per forza essere aggirata. E se il punto focale, il polo d’attrazione, è una figura relegata all’immobilità, i personaggi devono creare un ritmo, un’azione espressiva del percorso che, a dispetto del protagonista, rimane individuale.

Insomma, è un’arte che non gode del verismo, ma solo della verità. Verità da ricercare nel linguaggio e nella sua natura particolare. Si arriva estenuati alla fine, e ti accorgi che non è una stanchezza empatica, bensì la stanchezza dello spettatore di fronte ad uno spettacolo che non possiede un efficace ritmo drammaturgico e si fa dominare per tutto il tempo dalla lentezza esacerbante della donna malata.

Non aiutano di certo a superare questa fatica i racconti, i ricordi, somministrati come nozioni e non come parte integrante dell’evoluzione della storia. I personaggi poi si alternano senza un percorso intimo prolifico, leggibile, senza alcun cambiamento di approccio: non voglio che mi si dica cosa Fausto provò quando si rese conto che la madre non era “malata” ma moribonda, avrei preferito vederlo cambiare nei suoi approcci, nelle sue reazioni, nel suo linguaggio.

Potrebbe non essere successo nella realtà, ma questo è il teatro e l’empatia nasce sempre attraverso ciò che noi scopriamo nelle persone, non nelle frigide informazioni. La proiezione poi del primo piano della donna malata era fuori luogo, non necessaria, la scenografia inutile (uno spazio vuoto sarebbe stato forse più efficace), e Monica Samassa, che ha interpretato Mariapia non era all’altezza di Fausto ed Iris e, soprattutto all’inizio, questa differenza si fa notare e porta un certo peso.

Ho letto da qualche parte sul web che c’è stata prima una versione radiofonica, o una lettura del diario: ecco, forse la radio o un libro sarebbe lo spazio in cui questo documento, potrebbe risaltare e far cogliere il meglio di sè. (RE CARLO)

Partecipa alla discussione. Commenta l'articolo su Messinaora.it