Il testo che vi proponiamo è una lettura “indispensabile”: un eccellente contributo dello scrittore e giornalista messinese Giuseppe Loteta, che oggi vive a Roma, ma che della nostra città ha interpretato e vissuto i momenti migliori. Nei suoi testi nessuna “nostalgia”, ma una bella e gradita testimonianza di una ricchezza cultura che adesso sembra perduta.
Leonardo Sciascia aveva pochi amici messinesi. Si possono contare su una mano: Vincenzo Consolo, Eugenio Vitarelli, Vanni Ronsisvalle, Nino Crimi. Negli ultimi dieci anni della sua vita, dal 1979 al 1989, entrai anch’io in questa ristretta cerchia. Prima d’allora conoscevo lo scrittore soltanto attraverso i suoi libri, a cominciare da “Le parrocchie di Regalpietra” e da “Gli zii di Sicilia”, e avevo mancato negli anni Cinquanta un viaggio a Racalmuto con Crimi e Vitarelli, che mi avrebbe permesso di conoscerlo trent’anni prima. Ma è dal suo ingresso a Montecitorio, dove il mestiere di giornalista m’imponeva di andare quotidianamente, che è nata e si è sviluppata la nostra amicizia. Un’amicizia fatta di poche parole, quelle indispensabili. Per il resto bastava un gesto, un movimento del viso, uno sguardo. Ci capivamo così, da siciliano a siciliano, con grande meraviglia della sua segretaria che non riusciva a rendersi conto, quando andavo a trovarlo nel suo studio di deputato nell’ex convento di vicolo Valdina, di come facessimo a intenderci senza lo spreco di vocaboli al quale lei, da solerte funzionaria della Camera, era abituata.
Ero con Sciascia nel Transatlantico di Montecitorio nel giorno in cui era diventata rovente la polemica sulla sua pretesa equidistanza tra lo Stato e le brigate rosse. In realtà, questa equidistanza Sciascia non l’ha mai espressa. Aveva scritto di non riconoscersi in questo Stato. E, quanto alle Br, le sue parole non si prestavano ad equivoci: “Tutta la mia vita, tutto quello che ho pensato e scritto dicono che non posso stare dalla parte delle brigate rosse”. Eppure, contro lo scrittore era stata orchestrata una campagna di insulti e di falsità. A dirigerla, i comunisti e “L’Unità”, Eugenio Scalfari e “Repubblica”. Parlavamo di tutto ciò, quel giorno, quando si avvicinò a noi un senatore della Sinistra indipendente. Entrò anche lui nell’argomento, ma senza enfasi accusatorie. Tutto calcolato, per poi uscire con la frase ad effetto, certamente preparata in anticipo. Rivolgendosi a Sciascia: “Vedi, per esempio, io non ti darei mai il mio numero di telefono, perchè tu andresti a darlo alle brigate rosse”. Rimanemmo senza parole, mentre il diligente senatore, svolto il suo compito, si allontanava soddisfatto.
Raramente ho visto Sciascia così turbato come in quell’occasione. Ma andò avanti lo stesso. La tragica morte di Moro ad opera delle Br era per lui, che aveva scritto “Todo modo” e “Il contesto”, un enigma che lo tormentava. Voleva capire e far capire. Così, sollecitato da un editore francese, scrive l’ “Affaire Moro”, sostenendo che lo statista democristiano poteva essere salvato e che a volerne la morte erano stati i suoi compagni di partito con la complicità dei comunisti, leninisticamente sostenitori dello Stato forte. E prende parte ai lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Moro con la stessa passione, la stessa puntigliosa ricerca della verità che metteva nel documentarsi sullo sfondo storico delle sue opere letterarie, sui misteri di cui scriveva. Tentò inutilmente, spesso da solo, di frantumare il muro dei silenzi, delle reticenze, delle false notizie, dei depistaggi. E alla fine la sua relazione di minoranza – ventiquattro cartelle che ancor oggi andrebbero lette o rilette con attenzione – costituì il massimo possibile di avvicinamento a una verità tuttora ricoperta da impenetrabili veli.
Sciascia ha sempre adoperato poche parole. L’essenzialità dei suoi scritti si ripercuoteva nel linguaggio con una parsimonia ancora più marcata. più sofferta. I suoi interventi parlamentari, una diecina in tutto, sono stati un capolavoro di sintesi. Quando i suoi compagni radicali, impegnati in un duro ostruzionismo parlamentare, si lasciarono andare a interventi lunghissimi, di ore e ore, lui pronunciò un discorsetto di dieci minuti, preciso e incisivo nei contenuti, ma deludente per chi aveva programmato di far durare il dibattito quanto più possibile. “Scusatemi”, disse alla fine, “ma è il massimo che io possa fare”. Ma l’esperienza di Montecitorio lo deluse. Si rese conto di persona dell’impossibilità per un uomo solo di influire sulle logiche di schieramento che dominavano l’attività parlamentare. Al termine della legislatura tornò a vivere stabilmente in Sicilia.
A Roma, come scrive Matteo Collura nella sua bella biografia “Il maestro di Regalpietra”, Sciascia aveva ricreato il suo spazio paesano. La sua vita, tranne eccezioni che gli costavano, si svolgeva tra le poche centinaia di metri che dividono l’albergo Nazionale, il palazzo di Montecitorio, lo studio di vicolo Valdina e il ristorante di Fortunato, quasi in piazza del Pantheon. Ed è in questo spazio che si sviluppavano le nostre misurate conversazioni. Si parlava poco e di tutto. Di politica, naturalmente. E di letteratura. Della guerra di Spagna, argomento che ci accomunava con la stessa passione. Di mafia. Della Sicilia e delle città siciliane. Non volli mai chiedergli perchè avesse poca simpatia per Messina, la mia città. Sospettavo, però, che su questo disamore giocasse un lontano precedente. Appena diplomato si era iscritto nella facoltà di Magistero dell’Università messinese. Ma lì, ai suoi primi due esami, aveva preso 18 in filosofia e addirittura una bocciatura in letteratura italiana. Se ne era ritornato a Racalmuto a fare il maestro elementare e scrivere quelle opere che gli avrebbero consegnato un posto di tutto rispetto in quella letteratura che non era riuscito a superare all’Università.
Uno dei pochi argomenti in cui non ci trovavamo d’accordo era il mare. Che io ho sempre amato e che lui, da siciliano dell’interno, delle zolfare, non amava. Non aveva mai fatto un bagno a mare. Ne diffidava, ne aveva paura. Lo giudicava un nemico dell’isola, con le incursioni dei pirati saraceni, con i naufragi, con le mareggiate. E si affidava, per conferma, all’antica saggezza dei proverbi contadini. “Lu mari è amaru”, amava ripetere. Ma questo non gli impediva di apprezzare da Fortunato gli spaghetti ai frutti di mare, dei quali era ghiotto.
Negli anni che ci dividono dalla morte di Sciascia è accaduto di tutto. Tangentopoli ha cancellato un’intera classe dirigente, i vecchi partiti non esistono più e ne sono stati creati di nuovi, Falcone e Borsellino sono stati assassinati, Andreotti è stato assolto, Riina e Provenzano sono stati catturati, i pentiti di mafia sono diventati legioni, il crollo delle torri di New York ha avviato una nuova stagione di lotta al terrorismo e di rapporti internazionali, Barak Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti, l’Italia e l’Europa sono entrati in una fase di crisi economica dalla quale stentano ad uscire. Chissà che cosa avrebbe avuto da dire e da scrivere su questo e altro il maestro di Regalpietra, con le sue intuizioni illuminanti, le sue serrate analisi, il suo illuminismo razionale, il suo pessimismo della ragione e il suo ottimismo della volontà. (GIUSEPPE LOTETA)