Aggiungere commenti al valore giornalistico di Giorgio Bocca appare superfluo. Certo per chi ama questo mestiere è difficile non pensare a quanto sia stato importante come modello di un giornalismo per cui vale la pena sacrificarsi: una visione etica e romantica di un mondo fatto in parte, a pezzi, dal mercimonio degli ultimi anni, fino all’amara vicenda della direzione Minzolini della Rai, che è l’ultima testimonianza di quanto la professione abbia toccato livelli bassissimi.
Noi vogliamo sottolineare lo spirito critico, quello del polemista che sa guardare oltre, che sa creare opinioni e suscitare reazioni, senza paura di farsi bersaglio degli “intoccabiili”, anche quando si tratta dell’Arma dei Carabinieri. Il riferimento è ad una grande polemica, innescata nel 2009, con un articolo pubblicato su L’espresso, in cui Bocca, fedele al rigore analitico e alla passione civile che lo ha sempre distinto, parlò del tacito accordo che in Sicilia “regola” la coesistenza dei carabinieri e della mafia. Un articolo che scatenò dissenso a destra come a sinistra, e ovviamente la reazione indignata dell’allora comandante dei Carabinieri, generale Leonardo Gallitelli.
L’articolo di Giorgio Bocca, alla luce anche della recente notizia dell’esistenza di una donna testimone chiave dell’omicidio di Peppino Impastato, la casellante del passaggio a livello di Cinisi, che i carabinieri avevano dichiarato irrintracciabile, resta un esempio di quel giornalismo capace di leggere e interpretare la realtà e non solo di copiare veline.
E’ il nostro modo di salutare un maestro. Un altro che con Montanelli e Sciascia sapeva essere indigesto ai potenti.
Crediamo anche che l’antimeridionalismo di cui si accusa Bocca sia il giusto antimeridionalismo di cui ogni buon meridionale dotato di autocrita può servirsi per motivare un orgoglio diverso dal semplice campanilismo.
L’articolo in questione si intitola “QUANTI AMICI HA TOTO’ RIINA” ed è stato pubblicato nell’agosto del 2009. Una “rilettura” dove si coglie tutta l’attualità di un pensiero libero e critico ad un sistema difficilmente interpretabile se non attraverso una grande lucidità.
“L’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il capo siciliano della mafia Totò Riina, lo scrittore della sicilitudine Leonardo Sciascia , il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa ucciso dalla mafia perché la conosceva bene, Massimo Ciancimino il figlio del sindaco mafioso di Palermo don Vito e altri esperti della onorata società hanno spiegato invano agli italiani che il problema numero uno della nazione non è il conflitto fra il legale e l’illegale, fra guardie e ladri, fra capi bastone e le loro vittime inermi, ma il loro indissolubile patto di coesistenza. L’essere la mafia la mazza ferrata, la violenza che regola economia e rapporti sociali in province dove la legge è priva di forza o di consenso.
Eppure la maggioranza degli italiani non se ne vuol convincere, si rifiuta di crederlo e quando il capo della mafia Totò Riina fa sapere che l’assassinio del giudice Paolo Borsellino è stato voluto o vi hanno partecipato i tutori dell’ordine, ufficiali dei carabinieri o servizi speciali, il buon italiano si dice: è l’ultima scellerataggine di Riina, mette male nel nostro virtuoso sistema sociale. Se ci sono due scrittori italiani e siciliani che hanno larga e meritata popolarità nel paese essi sono Giuseppe Tomasi di Lampedusa autore del ‘Gattopardo’ e Andrea Camilleri i cui libri sono in testa alle vendite, salvo il libro migliore, uno dei primi edito da Sellerio in cui spiegava per filo e per segno i compromessi fra mafia e Stato su cui si fonda l’unità d’Italia.
Senza alcuna presunzione di avvicinarmi a questi maestri, vorrei umilmente ricordare ai miei connazionali le ragioni per cui il capo delle mafie Totò Riina ha potuto scrivere il famoso ‘papello’ al capo del governo italiano per chiedergli, come ora ci fa sapere Massimo Ciancimino custode del documento, se, viste le buone relazioni correnti, il capo del governo non poteva mettere a disposizione del capo della mafia una rete della televisione. Proprio come chiesero e ottennero la Terza rete i comunisti quando condizionavano il mercato del lavoro.
Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo, ha detto o lasciato capire che i carabinieri ‘nei secoli fedeli’ si attennero nelle operazioni di mafia ad attenzioni speciali, clamorosa quanto rimasta senza spiegazioni credibili la mancata perquisizione nella villetta in cui Riina aveva abitato e guidato per anni la ‘onorata società’
Del pari sono rimaste senza spiegazioni le accuse e le richieste di chiarezza mosse, quando era sindaco a Palermo, da Leoluca Orlando. Eppure una ragione del ‘comportamento speciale’ della più efficiente polizia italiana verso la mafia c’è ed è evidente: i carabinieri, come la mafia, non sono qualcosa di estraneo e di ostile alla società siciliana, fanno parte e parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio, di controllo del territorio condiviso con la Chiesa e con la mafia.
In ogni paese siciliano accanto alla Chiesa e al parroco c’è una caserma dei carabinieri e una cosca mafiosa. Spiega Camilleri nel suo aureo libretto: i parroci sono persone oneste, ma sanno che a mettersi apertamente contro la mafia restano isolati, senza sussidi, senza ragazzi negli oratori. E i carabinieri? I carabinieri, specie quelli che arrivano da altre provincie, sanno che la loro vita è appesa a un filo che un colpo di lupara può raggiungerli in ogni vicolo, in ogni tratturo. Non è naturale, obbligatorio che si creino delle tacite regole di coesistenza o di competenza?. (GIORGIO BOCCA)”