La carne e il suolo. Il Caino della Sterrantino alla Sala Laudamo

È sempre più difficile nella drammaturgia contemporanea trovare un’opera che riesca a congiungere con equilibrio la densità e il rigore concettuali alla sperimentazione di nuove forme espressive e recitative, senza cedere né nello snervante intellettualismo né nella gratuita vacuità della rappresentazione senza concetto. Un’ operazione di tale tipo è stata certamente compiuta da Auretta Sterrantino con la sua pièce Caino. Homo necans, nella quale reinterpreta l’episodio biblico dell’assassinio di Abele perpetrato dal fratello.

Essa costituisce il risultato di una laboriosa ricerca psicologica   ̶  oltre che testuale  ̶  che ha come fine principale la problematizzazione delle cocenti  questioni teologiche e morali che si addensano da millenni attorno alla paradigmatica relazione conflittuale tra i due figli di Adamo ed Eva, delle quali questo dramma cerca di mostrare la tragica insolubilità: il mistero della muta presenza della divinità trascendente nella vita umana; la necessità della morte e il contraddittorio, dilaniante peso della sua espiazione; l’incomprensibile irriducibilità del dissidio tra entità che condividono la stessa genesi.

Tutti gli elementi precipui di questa rappresentazione sono funzionali alla cruda veicolazione di questi problemi. Innanzitutto la scenografia   ̶  curata da Giulia Drogo  ̶  , caratterizzata da un’essenzialità nella quale emerge la valenza simbolica degli oggetti campestri e rituali (le teste dei forconi appese a più fili, le spighe di grano, i catini e calici per le abluzioni), e le musiche, scritte da Vincenzo Quadarella, segnate da un’inquietante tensione psichedelica, suggeriscono, con modalità proprie, che lo scontro tra Abele e Caino conoscerà un inusuale sviluppo altamente problematico.

La recitazione di Livio Bisignano e Oreste De Pasquale, percorsa da un’intensità e da un’abilità tecnica quasi prive di allentamenti, costituisce il reale perno sul quale ruota la lettura dell’evento veterotestamentario da parte della Sterrantino: in essa si palesa lo sforzo costante di fuggire ogni tentazione mimetica e di porre in risalto gli aspetti simbolici e gestuali (mutuati sapientemente dalla tragedia antica e forse dal teatro tradizionale giapponese) della drammatizzazione, con il chiaro intento di lumeggiare il processo contrastivo che coinvolge i due protagonisti.

A costoro è affidato il difficile compito di dare corpo all’interpretazione dell’autrice, la quale vuole smantellare l’apparente fissità semantica della storia narrata nella Genesi per conferirle una radicale profondità filosofica. Dall’angolo di visuale della drammaturga messinese, la natura del rapporto tra i due fratelli assume una valenza archetipica che riguarda il processo di formazione della ragione occidentale.

Abele, signore degli esseri animali che Dio ha originariamente posto alla mercé dei discendenti di Adamo e zelante custode dei sacrifici rituali, latore della volontà del dominio razionale e reale dell’uomo sulle forze naturali interne ed esterne ad esso, rappresenta figurativamente il prodotto di quella separazione da sé che la coscienza ai suoi albori compì per determinarsi in qualità di entità autonoma e padrona del suo mondo. Ciò che Abele crede di aver estirpato da se stesso si ripresenta, con tratti angoscianti, nella figura di Caino, voce della carne e del desiderio pulsionale della quale il fratello, sebbene avviluppato da un oscuro terrore, non riesce a privarsi, come Ulisse non si privò del pur dissolutivo canto delle Sirene.

L’uccisione di Abele per mano di Caino, all’interno di questo orizzonte ermeneutico, potrebbe essere vista come l’esito ineludibile di una tragica dialettica immanente alla costituzione della ragione autocosciente, sulla quale si ripercuotono le conseguenze inaspettate della distruzione che ha creduto di scacciare da sé gettandola sulla natura. (Antonio Fede)

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