Le cronache sportive raccontano di un tale Vincenzo Nibali da Messina che, ieri, ha staccato in salita i migliori ciclisti del momento, svettando sulle Alpi e consolidando la sua maglia gialla al Tour de France 2014. La reazione in città è di quelle che ti aspetti, eccome. Tutti pronti a salire sul carro, o sulla bicicletta, del vincitore. Sui social network come nella vita reale.
Un po’ come l’effetto dei mondiali di calcio: anche chi non assiste a una partita per quattro anni di fila, di fronte alle gare della nazionale diventa appassionato. Perfino acuto intenditore di pelota e dintorni.
Personalmente, il ciclismo non lo seguo più dai tempi di Marco Pantani. Un ragazzo fragile nella vita di tutti i giorni ma capace di tirare fuori un cuore da leone quando, in sella alla sua Bianchi, doveva sfidare le scalate più impervie. È stato il ciclismo a innalzarlo, fino a condurlo in cima all’Olimpo degli dei immortali dello sport. È stato il ciclismo a distruggerlo, con un’ostinazione senza pari. Mai trovato positivo a un solo controllo, è stato messo alla gogna per doping e addirittura perseguito dalla giustizia penale. Cosa più unica che rara, inequivocabile indice di un accanimento le cui ragioni sono altre e nessuno, finora, le ha mai raccontate.
Quello che, al contrario, è stato ampiamente raccontato è un mondo, quello del ciclismo su strada, che ama elevare i suoi miti al cielo solo per farli disintegrare, poco dopo, lanciandoli senza paracadute dal punto più alto della torre. Perfino sui sette trionfi consecutivi al Tour (dal 1999 al 2005) di Lance Armstrong, campione di coraggio prima ancora che sui pedali, sono state gettate ombre pesanti come macigni. Così, ben sette anni dopo il suo ultimo successo francese, viene squalificato sine die per doping e privato, ma solo formalmente – perché la verità non si può cancellare – dei suoi trofei.
Qualunque individuo di media levatura è capace di porsi la conseguente domanda: come fa uno che si afferma sette volte di fila nella competizione più prestigiosa in assoluto, pertanto con i riflettori del mondo costantemente addosso, a eludere controlli sempre più accurati? E come fanno le analisi che, mentre era in attività, lo dichiaravano perfettamente in regola, a svelarne le eventuali magagne ben sette anni dopo?
Misteri di un mondo perverso, anche a latitudini più familiari. Per esempio a Messina, dove il 14 novembre 1984 nasce Nibali. Figlio di un impiegato del Comune e di una noleggiatrice di videocassette, viene spedito, ancora minorenne, a Mastromarco Lamporecchio, in provincia di Pistoia, proprio a causa del poco o nulla che questa terra può offrirgli.
I suoi genitori lo seguono ovunque, con il loro camper, e, consapevoli del suo talento straordinario, lo amano al punto da allontanarlo, pur di dargli delle prospettive che qui non potrà mai avere. Non a caso, è Mastromarco Lamporecchio a intitolargli il primo fan club.
Oggi, però, questa città, che dei figli degli impiegati o dei negozianti, dei lustrascarpe o dei fornai, se ne infischia altamente, lo osanna. Come se le sue vittorie fossero merito proprio. Perché i messinesi sono bravissimi a salire in corsa sul carro, o la bici, dei vincitori. Purtroppo, però, sono pessimi scalatori quando tocca a loro pedalare.
Solo così si spiega lo spettacolo desolante offerto ieri in Consiglio comunale. Di fronte al cancro quasi inestirpabile dei tir, si arriva ad assistete ad autotrasportatori che impunemente minacciano città e istituzioni. Si arriva ad assistere agli stessi esponenti delle istituzioni che, senza il minimo pudore, prendono apertamente le difese dei potenti di sempre.
Si assiste, e questa è la perfetta parabola di una disfatta collettiva, al partito più forte a livello locale, e non solo, il Pd di Francantonio Genovese – che lo si voglia ammettere o meno – che invoca il ritiro dell’ordinanza che tenta di liberare il centro, come la periferia, dai mezzi pesanti che da decenni imperversano, producendo caos, inquinamento e morti. Un Pd che, in questo, è identico se non peggiore di Forza Italia quando pretende la riforma della magistratura.
Peggiore, sì, perché – al di là dei processi di Silvio Berlusconi, che talvolta si concludono perfino con un’assoluzione – la giustizia, in questo Paese, va davvero rivisitata in lungo e in largo. I tir, invece, vanno spostati altrove. E basta.
Al centro di questo quadretto apocalittico si staglia la figura di Renato Accorinti. Che appena un anno fa era Nibali e che oggi è stato trasformato in Pantani o Armstrong. Tutti pronti a salire sulle sue spalle quando i finti rivoluzionari avevano bisogno di rifarsi una verginità. Tutti pronti ad abbandonarlo al suo destino di lotta ora che gli interessi particolari non coincidono con quelli collettivi.
E i messinesi? Sempre pronti a guardare. Perché pedalare, soprattutto in salita, è troppo faticoso. Non è una mera coincidenza, del resto, che le isole pedonali e le piste ciclabili siano belle solo quando si trovano nelle città degli altri.
Se son rose… scaleranno. (@FabioBonasera)